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Era un posto ampio, impeccabile, un pochino stravagante nell’arredamento, con linee frastagliate di colore che danzavano sulle pareti, manufatti precolombiani in vetrinette, in evidenza, illuminati da riflettori, bizzarre maschere africane, mobili in acciaio cromato, il tipo di arredamento improbabile che si vede nella sezione arredamento del numero domenicale del Times.

Il centro dello show era il soggiorno, una vasta stanza con le pareti tinteggiate in bianco e una lunga finestra ricurva che rivelava tutti gli splendori di Queens attraverso l’East River. Toni sedeva all’estremità opposta, accanto alla finestra, su un divano ad angolo, azzurro cupo con riflessi oro. Indossava abiti vecchi, trasandati, che urtavano con lo splendore che la circondava: una giacchetta rossa antiquata che io detestavo, una gonna corta, scura, sciatta, calze nere… ed era buttata lì, risentita, sulla schiena, appoggiata a un gomito, le gambe che sporgevano goffamente. Una posizione che la faceva sembrare ossuta e sgraziata. Una sigaretta che le pendeva tra le dita, e nel portacenere accanto a lei un’enorme pila di cicche. Gli occhi erano tristi. I suoi lunghi capelli arruffati. Non si mosse mentre io andavo verso di lei. Da lei proveniva un’aura di ostilità che mi bloccò a cinque o sei metri di distanza.

— Dov’è la roba che eri venuto a portarmi? — chiese.

— Non c’era niente. Era solo una scusa per vederti.

— Me l’ero immaginato.

— Che cosa è andato male, Toni?

— Non chiedermelo. Proprio non chiedermelo. — La sua voce era piombata su un registro bassissimo, un contralto amaro, rauco. — Tu non avresti dovuto venire qui, assolutamente.

— Se mi avessi detto che cosa ho…

— Hai cercato di farmi del male — disse. — Hai cercato di farmi fare un brutto viaggio. — Spense la sigaretta e subito ne accese un’altra. I suoi occhi, tristi e velati, rifiutavano di incontrare i miei. — Mi sono resa finalmente conto che mi eri nemico, che dovevo scappare lontano da te. Così ho impacchettato tutto e sono scappata.

— Tuo nemico? Ma lo sai bene che questo non è vero.

— È stata una cosa strana — disse lei. — Non ho capito che cosa sia successo. Ho parlato con della gente che ha ingoiato un mucchio di acido e non hanno capito neppure loro. Era come se le nostre due menti fossero collegate, David. Tra noi si era aperto come un canale telepatico. E da te fluiva dentro di me ogni genere di roba. Roba odiosa. Roba velenosa. Io pensavo i tuoi pensieri. Vedevo me stessa come mi vedevi tu. Ricordi, quando dicesti che anche tu stavi viaggiando, sebbene tu non avessi preso acido per niente? Allora mi dicesti che tu stavi, quasi, leggendo la mia mente. È stato questo che mi ha atterrita. Che le nostre due menti sembravano insudiciarsi insieme, sovrapporsi. Diventare una sola. Non ho mai saputo che l’acido facesse uno scherzo del genere.

Era l’imbeccata giusta per dirle che non era stato soltanto l’acido, che non era stata una fumata deludente, che quanto lei aveva provato era l’urto di un potere speciale che possedevo dalla nascita, un dono, una maledizione, un’anomalia di natura. Però le parole mi si congelarono nella bocca. Suonavano come parole di un pazzo, a me stesso. Come avrei potuto confessarle un fatto del genere? Lasciai sfumare quell’occasione. Dissi, invece, debolmente: — Okay, è stato uno strano momento per tutti e due. Eravamo un poco in orbita. Però adesso il viaggio è finito. Non hai bisogno di nasconderti da me, adesso. Ritorna, Toni.

— No.

— Tra qualche giorno, allora?

— No.

— Questo non lo capisco.

— È cambiato tutto — disse lei. — Adesso non potrei mai più vivere con te. Tu mi fai troppa paura. Il viaggio è finito, però io ti guardo e vedo dèmoni. Vedo un qualcosa che è metà pipistrello, metà uomo, con grandi ali di gomma e lunghe zanne gialle e, oh, Gesù mio, David, non posso farci nulla! Io mi sento ancora adesso come se le nostre due menti fossero agganciate. C’è qualcosa che scivola fuori dalla tua testa verso la mia mente. Non avrei mai dovuto prendere l’acido. — Distrattamente lei spense la sigaretta e ne cercò un’altra. — Tu adesso mi metti un terribile disagio. Vorrei che te ne andassi. Anche solo starti vicino mi dà un terribile mal di testa. Per favore. Per favore. Mi spiace, David.

Non osai dare un’occhiata nella sua mente. Avevo paura di trovarci qualcosa che potesse inaridirmi e farmi avvizzire. Ma in quei tempi il mio potere era ancora così forte che non potevo impedirmi di cogliere, la cercassi o no, una generalizzata radiazione mentale a basso livello proveniente da coloro cui mi avvicinavo, e quello che colsi in quel momento da Toni, confermò ciò che lei mi aveva appena detto. Non aveva smesso di amarmi. Però l’acido, anche se era acido lisergico e non acido solforico, aveva scalfito e corroso la nostra relazione aprendo quel terribile baratro tra noi due. Per lei era una tortura essere nella stessa stanza con me. Nessuna mia abilità avrebbe potuto rimediare a questo. Presi in considerazione varie strategie, vari spiragli a cui aggrapparmi, modi diversi per ragionare con lei, per curarla con parole morbide e calorose. Niente da fare. Assolutamente niente da fare. Passai rapidamente in rassegna nella mia mente una decina di tentativi di approccio e tutti finivano con Toni che mi supplicava di sparire dalla sua vita. Proprio così. Era finito. Lei continuava a starsene seduta lì, quasi immobile, abbattuta, tutta scura in faccia, la sua bocca larga serrata per il dolore, il suo sorriso smagliante troncato. Sembrava invecchiata di vent’anni. La sua strana, esotica bellezza da principessa del deserto era completamente svanita. Improvvisamente lei fu più reale per me, nel suo sudario di dolore, di quanto non fosse mai stata prima. Rossa in volto per la sofferenza, ravvivata dall’angoscia. E per me nessuna possibilità di raggiungerla. — Va bene — dissi tranquillamente. — Dispiace anche a me. — Passato, finito, rapidamente, improvvisamente, senza preavviso, la pallottola che fischia nell’aria, la granata che traditrice rotola dentro la tenda, l’incudine che crolla giù da un placido cielo. Finito così. Di nuovo tutto solo. Anche senza lacrime. Urlare? Perché dovrei urlare?

Bob Larking, con molto tatto, era rimasto fuori, nel suo lungo ingresso rivestito di carte da parati con abbacinanti illusioni ottiche in bianco e nero, per tutto il tempo della nostra breve conversazione sotto voce. Di nuovo, quando riemersi, ritrovai in lui quel gentile sorriso spiacente.

— Grazie per avermi permesso per quest’ultima volta di infastidirti — dissi.

— Nessun disturbo. Va molto molto male tra te e Toni. — Annuii. — Sì: molto, molto male.

Ci guardammo in faccia vicendevolmente incerti, poi lui mi si avvicinò, affondando per un attimo le dita nel muscolo del mio braccio, dicendomi, senza parole, di adattarmici, di uscire fuori dalla bufera, di rimettermi in sesto. Era così spalancato che la mia mente, inaspettatamente, affondò dentro di lui e vidi la sua schiettezza, la sua bontà, la sua gentilezza d’animo, il suo dolore. Uscendo da lui un’immagine crebbe dentro di me, un amaro ricordo ormai sepolto: lui e una Toni tutta piangente, distrutta, due notti prima, che giacevano nudi insieme su un letto rotondo alla moda, la testa di lei appoggiata contro il petto muscoloso, villoso, di lui, mentre accarezzava dolcemente i pallidi seni sodi. Il corpo di lei tutto tremante per il bisogno. La sua mascolinità riluttante floscia che si dibatteva per offrirle la consolazione del sesso. Il suo spirito gentile in lotta contro se stesso, inondato di pietà e di amore per lei ma disgustato dalla sua femminilità che lo disturbava, quei seni, quella fessura, quella morbidezza. Non avertene, Bob, lei continua a ripetere, non avertene, proprio non avertene, ma lui le dice che lo desidera, è ormai ora che lo facciamo dopo che ci conosciamo da tanti anni, ti tirerà su, Toni, e comunque un uomo ha bisogno di qualche piccola distrazione, giusto? Il suo cuore è tutto riversato su di lei ma il suo corpo resiste, e il loro far l’amore, quando succede, è una cosa affrettata, patetica, goffa, un urtarsi di corpi tremanti riluttanti, che finisce in lacrime, tremolii, un’angoscia condivisa, e, infine, uno scoppio di risa, un trionfo sulla sofferenza. Lui toglie con i baci le sue lacrime; lei, con serietà, lo ringrazia per i suoi sforzi. Piombano in un sonno infantile, uno accanto all’altra. Quanta gentilezza, quanta tenerezza. Mia povera Toni. Arrivederci. Arrivederci. — Sono contento che sia venuta da te — dissi. Lui mi accompagnò all’ascensore. Che cosa dovrei fare, mettermi a urlare? — Se lei ne esce fuori sono sicuro che ti telefonerà — mi disse. Misi la mia mano sul suo braccio come lui aveva fatto con me, e gli rivolsi il miglior sorriso del mio repertorio. Arrivederci.