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All’improvviso uno di loro urla: — John Leibnitz!

— Ecco — dice tutto giulivo il grassottello. — Forse è questo nome che avete sentito. Stavo parlando di John Leibnitz qualche momento fa. Un amico comune. In questo casino può essere benissimo successo che a voi sia suonato come Nyquist.

Leibnitz Nyquist. Leibnitz. Nyquist. Bum. Bum. — Assolutamente possibile — convengo. — Non c’è dubbio che sia successo proprio così. Sono stato uno stupido. — John Leibnitz. — Spiacente di avervi importunato.

Guermantes dice, in punta di forchetta mentre si pavoneggia tutto, accanto a me: — Veramente, voi dovete venire a sentire le mie lezioni uno di questi giorni. Mercoledì prossimo, nel pomeriggio, comincio Rimbaud e Verlaine, la prima di sei lezioni. Fatevi vedere. Sarete al campus mercoledì, vero?

Mercoledì è il giorno in cui devo consegnare il compito finale di Yahya Lumumba sui tragici greci. Certo che ci sarò, al campus. Devo esserci. Però come fa Guermantes a saperlo? Legge, in un modo o nell’altro, nella mia testa? E se anche lui avesse questo dono? E io sono completamente spalancato per lui, lui conosce ogni cosa, il mio povero patetico segreto, la mia crescente perdita quotidiana e se ne sta la, trattandomi con condiscendenza perché io sto spegnendomi mentre lui è forte com’ero io una volta. Poi un improvviso attacco paranoico: non soltanto è vero che ha il dono ma forse è una specie di sanguisuga telepatica, che mi sta succhiando, assorbendo il potere dritto dalla mia mente per versarlo nella sua. Forse, in sordina, sta succhiandomi già dal ’74.

Scaccio via queste inutili idiozie. — Sì, penso di essere da quelle parti, mercoledì. Forse verrò.

Però non c’è alcuna probabilità che io vada ad ascoltare la lezione di Claude Guermantes su Rimbaud o Verlaine. Se lui ha il potere, che se lo metta nella pipa, e se lo fumi!

— Mi farebbe molto piacere se veniste — dice lui. Si piega verso di me. La sua androgina dolcezza, tipicamente mediterranea, gli permette, accidentalmente, di rompere il codice americano, ratificato, che vuole riservati i rapporti uomo-con-uomo. Annuso la lozione per capelli, il dopobarba, il deodorante, e vari altri profumi. Una piccola soddisfazione: non tutti i miei sensi stanno svanendo in un colpo. — Vostra sorella — mormorò. — Donna stupenda! Quanto la amo! Parla spesso di voi.

— Ah, sì?

— Con grande amore. Anche con un grande senso di colpa. Pare che voi due siate rimasti come estranei per molti anni.

— Adesso è finito. Finalmente stiamo diventando amici.

— Com’è meraviglioso per entrambi. — Fa ampi gesti sbattendo gli occhi. — Quel dottore. Non va bene per lei. Troppo vecchio, troppo statico. Dopo i 50 la maggioranza degli uomini perde la capacità di rinnovarsi. La annoierà a morte nel giro di sei mesi.

— Forse, quello di cui lei ha bisogno è proprio la noia — rispondo io. — Ha avuto una vita di eccitazione. E non l’ha resa felice.

— Nessuno ha bisogno della noia — dice Guermantes, e mi strizza un occhio.

— Karl e io gradiremmo averti a cena la settimana prossima, Duv. Ci sono un mucchio di cose di cui noi tre dovremmo parlare.

— Vedrò, Jude. Non sono ancora sicuro di niente per la prossima settimana. Ti telefonerò.

Lisa Holstein. John Leibnitz. Credo proprio di aver bisogno di un altro bicchierino.

Domenica. Eccessivamente imbottito. Hashish, rum, vino, erba. E Dio sa che cos’altro. E qualcuno che mi ficca sotto il naso del nitrito di amile verso le due del mattino. Quel lurido party del cazzo. Non avrei dovuto mai andarci. La mia testa, la mia testa, la mia testa. Dov’è la macchina per scrivere? Ho un lavoro da fare. Allora, andiamo:

Si vede, così, il diverso modo in cui questi tre tragici si accostano alla stessa storia. La preoccupazione primaria di Eschilo sono le implicazioni teologiche del delitto e l’inesorabile attività degli dei: Oreste è dilaniato tra il comando di Apollo di assassinare sua madre e il suo orrore per il matricidio, e finisce per impazzirne. Euripide si ferma alle caratterizzazioni, e sostiene una meno allegorica…

Maledizione, non vale niente. Aspetta più tardi.

Tra orecchio e orecchio, in me, c’è il silenzio. Il vuoto, nero, echeggiante. Oggi non c’è proprio niente che fila, niente. Penso che se ne sia completamente andato. Non riesco nemmeno a captare il fracasso degli ispano-americani vicini alla porta. Novembre è il mese più crudele; inaridisce la mente morta. Sto vivendo un poema di Eliot. Sto muovendomi tra le parole su di una pagina. Posso restarmene qui a sentirmi tutto amareggiato per me stesso? No. No. No. No. Ricomincerò a combattere. Esercizi dello spirito concepiti apposta per rigenerare il mio potere. Inginocchiati, Selig. Piega la testa. Concentrati. Trasformati in un’antenna capta-pensieri, un sottilissimo raggio laser telepatico, che si stenda da questa stanza fino in prossimità di quella deliziosa stella che è Betelgeuse. Fatto? Bene. Quel tagliente puro raggio mentale che penetra l’universo. Tienilo. Tienilo compatto. Vecchio mio, non è permesso sfaldarsi alle estremità. Bene. Adesso sali. Stiamo salendo la scala di Giacobbe. Questa sarà un’esperienza extra-corporea, David. Su, su, vai! Attraversa il soffitto, attraversa il tetto, attraversa l’atmosfera, attraversa la quelchetiparesfera. Fuori. Inoltrati nei vuoti spazi interstellari. Oh! Buio buio buio. I sensi raggelati, il perché dell’azione perduto. No, blocca questa roba! In questo viaggio sono permessi soltanto pensieri positivi. Innalzati! Innalzati! Verso i piccoli uomini verdi di Betelgeuse IX. Capta le loro menti, Selig. Entra in contatto. Entra… in… contatto. Innalzati, indolente d’un ebreo bastardo! Perché non ti innalzi? Innalzati!

Bene?

Niente.

Nada. Niente. Il nulla. Nulla. Nicht.

Ripiombò sulla Terra. Nel bel mezzo del funerale silente. Tutto bene, lascia perdere, se è questo che vuoi. Va bene. Fermati, per un secondo. Fermati e poi prega, Selig. Prega.

Lunedì. I postumi sono passati. Il cervello ha ricominciato a funzionare una volta ancora. In una gloriosa vampata di parossismo creativo, riscrivo Il tema di “Elettra” in Eschilo, Sofocle, e Euripide da capo a fondo, ricostruendolo, cambiando i termini, schiarendolo e rafforzandone le idee mentre contemporaneamente vi introduco quello che ritengo sia il tono spigoloso ed estemporaneo del negro. Mentre sto scolpendo le ultimissime parole, squilla il telefono. Ha proprio scelto il momento questo; mi sento socievole. Chi chiama? Judith? No. È Lisa Holstein. — Avevi promesso di portarmi a casa dopo il party — dice lugubre, con tono di accusa. — Che cazzo hai fatto, te la sei svignata?

— Come hai avuto il mio numero?

— Da Claude. Il professor Guermantes. — Quel diavolo effemminato. Quello sa tutto. — Senti, adesso, in questo preciso momento, cosa stai facendo?

— Ho in testa di farmi una bella doccia. Ho lavorato tutta la mattina e puzzo come una capra.

— Ma che cavolo di lavoro fai?

— Stendo i compiti finali per degli studenti della Columbia.

Lei ci pensa su un momento. — Certo che tu sei un uomo strano, bello mio. Dico sul serio: che cosa fai?

— Te l’ho appena detto.

Un lungo silenzio. Sta assimilando. Poi — Okay. Posso capirlo. Tu stendi compiti finali. Senti, Dave, fatti la tua doccia. Quanto tempo ci vuole, in metrò, per casa tua venendo dalla 110a Strada a Broadway?

— Quaranta minuti, se becchi subito il treno.

— Magnifico! Allora ti vedo tra un’ora. — Clic.