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HAL CLEMENT

NATI DALL’ABISSO

(Ocean On Top, 1973)

CAPITOLO I

Non ho mai avuto bisogno di rivolgermi a uno psichiatra e non ci tengo affatto, però avrei voluto che ce ne fosse uno in giro, per parlare con lui. Non che mi sentissi sull’orlo della pazzia: ma quando hai qualcosa di profondo da dire, vuoi che qualcuno possa valutarlo; e ci sarebbe voluto davvero un professionista per valutare l’osservazione che desideravo fare in quel momento.

Esiste una definizione per coloro che non sopportano di trovarsi allo scoperto, con la folla tutt’intorno che li guarda, e ne esiste un’altra per quelli che danno giù di testa se si trovano chiusi in poco spazio. Sono disturbi abbastanza comuni, ma sarei disposto a scommettere che nessuno, prima, aveva mai sofferto contemporaneamente di agorafobia e di claustrofobia.

Con un nome come il mio, naturalmente, non ho mai cercato di mettermi molto in vista, e di solito resisto anche alla tentazione di fare lo spiritoso quando mi trovo in compagnia. Ma in quel momento avrei voluto che ci fosse qualcuno, lì, ad ascoltare la diagnosi delle mie sensazioni.

O forse, avrei voluto semplicemente che ci fosse qualcuno.

Non udivo più la tempesta. La Pugnose era affondata quasi esattamente dove doveva. Aveva incontrato il maltempo dove aveva previsto l’ufficio meteorologico, e il carburante si era esaurito dopo cinque minuti… questo avrei potuto predirlo anch’io; era logico che quelli del Consiglio di Amministrazione facessero in modo che non andasse a fondo, con l’imbarcazione, una quantità di energia superiore al minimo indispensabile. Comunque, di energia ne era rimasta un po’ negli accumulatori, e io avevo continuato a mantenere un certo controllo fino al momento in cui si era avvicinata al massimo al Punto X. Era arrivata all’incirca a mezzo miglio. Quando avevo visto che avrei tra breve superato il punto chiave, avevo fatto saltare i fuochi d’artificio, e così la povera, piccola Pugnose aveva cominciato a squarciarsi a metà.

Non era stata mai destinata ad altri scopi, e io non mi ero innamorato di lei, come avrebbe potuto fare qualcun altro, ma lo spettacolo, comunque, non mi piaceva. Mi sembrava uno spreco. Comunque, non ci rimuginai troppo sopra. Mi infilai nella capsula, la sigillai, e lasciai fare alla natura. Ormai, se c’era da credere ai segnalatori della pressione statica, la capsula ed io eravamo a una profondità di duecentocinquanta metri.

C’era un grande, grande silenzio. Sapevo che l’acqua mi turbinava accanto perché la profondità cresceva di circa mezzo metro al secondo, ma non la udivo. I pezzi staccati della Pugnose se ne erano andati già da un po’: quelli galleggianti si erano sparsi sul Pacifico, e quelli pesanti mi avevano preceduto verso il fondo. Mi sarei sentito turbato, oltre che sorpreso, se avessi sentito qualcosa di solido sbattere contro il mio relitto. Il silenzio era una buona notizia, ma mi metteva egualmente a disagio.

Ero stato una volta nello spazio — per un’indagine sulle scorie in una delle stazioni di ricerca sulla fusione — e c’era la stessa, totale assenza di suono. Allora non mi era piaciuto: mi aveva dato l’impressione che l’universo mi snobbasse di proposito, in attesa dell’istante in cui avrebbe potuto spazzar via i miei resti. E non mi piaceva neppure ora, sebbene la sensazione fosse diversa… stavolta era come se qualcuno mi stesse osservando attentamente per scoprire cosa intendevo fare, e cercasse di decidere i provvedimenti da adottare. Uno psichiatra non avrebbe potuto rimediare a questa idea, naturalmente, perché era abbastanza probabile che fosse vero.

Bert Whelstrahl era scomparso un anno prima, nelle stesse acque. Joey Elfven, l’ingegnere e sommergibilista più esperto che si potesse trovare sulla Terra, era sparito senza lasciar tracce dieci mesi dopo, nella stessa zona. Entrambi erano miei amici, e la loro sparizione mi turbava.

Sei settimane prima, Marie Wladerzki aveva seguito gli altri due. E questo era stato molto peggio, dal mio punto di vista. Lei non era stata mandata per investigare, naturalmente: il Consiglio di Amministrazione, impersonato dall’attuale presidente, di cui ometto il nome dal mio racconto, ritiene che le donne non siano abbastanza obiettive. Ma questo non significava che Marie non potesse essere curiosa. Per giunta, le stava a cuore Joey, come lei stava a cuore a me. Poiché era Marie, non aveva veramente violato la lettera dei regolamenti, quando aveva preso un sommergibile del Consiglio a Papeete: ma senza dubbio aveva superato i limiti dello spirito di quelle disposizioni. Non aveva detto dove andava, e l’ultima volta che aveva dato notizie di sé era stato tra Pitcairn ed Oiejo, a mille miglia dal punto in cui io stavo affondando ora con i resti della Pugnose: ma quelli che la conoscevano sapevano benissimo dove andarla a cercare.

Il presidente era stato così umano da scegliermi come volontario per la ricerca. Il mio istinto sarebbe stato proprio quello… prendere un sommergibile ed andare a vedere cos’era successo: ma la ragione aveva avuto la meglio. La scomparsa di Bert poteva essere stata un incidente, sebbene vi fossero già motivi di sospetto, per quanto riguardava la zona dell’Isola di Pasqua. La sparizione di Joey a circa sei miglia dallo stesso punto poteva anche essere una coincidenza… qualche volta, il mare è capace di giocare all’uomo tiri del genere. Ma, dopo la scomparsa di Marie, solo uno stupido si sarebbe precipitato alla cieca in quella zona, in modo più sfacciato del necessario.

Perciò, adesso io ero a circa trecento metri sotto la superficie del Pacifico, e ad una quota molto più alta rispetto al fondale, camuffato da relitto d’una imbarcazione naufragata.

Non sapevo esattamente quanta acqua ci fosse ancora sotto di me; sebbene i miei ultimi controlli alla superficie fossero stati efficienti, ed avessi acquisito una buona conoscenza del profilo dei fondali a nord di Rapa Nui, non potevo essere sicuro di scendere in verticale. Le correnti nei pressi dell’isola non sono tranquille e regolari come fanno pensare le freccette che figurano sulle carte del Pacifico a scala ridotta.

Naturalmente, avrei potuto provare con l’ecometro, ma per evitare quella tentazione, nella capsula non avevo strumenti di emissione, a parte i riflettori; e non avevo intenzione di usare neppure quelli, fino a che avessi in qualche modo la certezza di essere solo. La cosa migliore era vedere senza essere visto. La certezza sarebbe venuta, caso mai, molto più tardi, dopo che avessi raggiunto il fondo ed avessi passato parecchio tempo in ascolto.

Per il momento stavo tenendo d’occhio l’indicatore di pressione, che mi diceva che l’acqua si accumulava sopra di me, ed i sensori, che mi avrebbero fatto sapere se qualcun altro stava usando apparecchi sonar nei dintorni. Non sapevo bene se desideravo o no di vederli reagire. Se avessero reagito, sarebbe stato un progresso: avrei saputo che laggiù c’era qualcuno che non avrebbe dovuto esserci… ma poteva anche essere un progresso dello stesso tipo fatto dagli altri tre. Forse non era il caso di preoccuparmi troppo, perché cinque o sei metri di scafo sfondato sarebbero apparsi ad una sonda sonar per ciò che erano, e la capsula interna non sarebbe stata presumibilmente scoperta. Naturalmente, però, certi addetti ai sonar non si lasciano ingannare tanto facilmente.

Potevo guardare fuori, sicuro. La capsula era munita di oblò, e due di essi si trovavano sul lato dove prima c’era la poppa della Pugnose. Talvolta, riuscivo persino a vedere qualcosa. C’erano scintille fosforescenti che salivano, e scie luminose, non abbastanza vivaci da permettermi di identificarne il colore, che talvolta mi sfrecciavano accanto e svanivano nelle tenebre, e talora, invece, fluttuavano per interi minuti davanti a un oblò, come se indicassero la posizione di qualcosa che cercava di guardar dentro, incuriosito. Un paio di volte provai la tentazione, anche se non troppo forte, di accendere i riflettori per vedere di cosa si trattava.