Ero già in ritardo sull'orario di lavoro. Il tragitto in autobus, che si snodava lungo un'infinità di stradine secondarie a carreggiata unica, era stato più lungo del previsto. Il pensiero di andare in centrale mi pesava, e qualche minuto in più, a quel punto, non avrebbe fatto alcuna differenza. Mi sistemai su un muretto diroccato, tirai su una gamba per tenermici in equilibrio e mi accesi una sigaretta. Un tizio ben piantato con i capelli scuri e stopposi, un certo George MacQualcosa che io ricordavo dai giorni dell'interrogatorio di quelli che lavoravano al sito, sollevò la testa e mi vide. Forse ispirato da me, infisse la cazzuola nel terreno, si accovacciò e tirò fuori dai jeans un pacchetto di sigarette schiacciato.
Mark era inginocchiato in cima a un terrapieno e grattava il terreno con energia. Il MacQualcosa non aveva ancora tirato fuori la sigaretta che lui l'aveva già adocchiato e si stava scapicollando giù per il pendio, con i capelli al vento. «Ehi, Macker! Che cazzo credi di fare?»
Macker fece un salto, con aria colpevole. «Cristo!» Si chinò a raccogliere il pacchetto delle sigarette che gli era caduto in mezzo al fango. «Mi fumo una sigaretta. Perché, scusa, hai qualche problema?»
«Te la fumi nella pausa caffè, come ti ho già detto.»
«Ma che sarà mai! Posso fumare e scavare nello stesso tempo. Ci vogliono cinque secondi per accendere una paglia.»
Mark perse la pazienza. «Non possiamo sprecare nemmeno cinque secondi. Non ne abbiamo nemmeno uno, se è per questo. Credi di essere ancora a scuola, idiota del cazzo? Credi che siamo qui tanto per divertirci?»
Aveva i pugni serrati e la posizione di attacco del lottatore da strada. Gli altri archeologi avevano smesso di lavorare ed erano rimasti a guardare, con la bocca aperta, esitanti, con gli attrezzi a mezz'aria. Mi chiesi se la faccenda non stesse per degenerare in rissa, ma poi Macker rise forzatamente e fece un passo indietro, sollevando le mani. «Rilassati, amico» disse. Prese la sigaretta tra pollice e indice e, con un gesto plateale, la rimise nel pacchetto.
Mark continuò a guardarlo fino a quando Macker, prendendosela comoda, non si fu nuovamente inginocchiato, non ebbe ripreso la sua cazzuola e non si fu rimesso a lavorare. Poi girò sui tacchi e tornò verso il terrapieno, le spalle curve e rigide. Macker si rialzò e di nascosto imitò la camminata elastica di Mark, trasformandola in quella di uno scimpanzé. Ottenne un paio di risate (Mark non si girò a guardare, né lo fece Mel che, però, vibrò con violenza un colpo di piccozza nel terreno) e, compiaciuto, rincarò la dose mettendosi la cazzuola davanti all'inguine e mimando una spinta pelvica in direzione della schiena di Mark. Il suo profilo contro il cielo basso era distorto, grottesco, quello di una creatura di un qualche osceno fregio greco dal contenuto misterioso e simbolico. L'aria vibrava di elettricità come in prossimità di un pilone dell'alta tensione e le buffonate di quel ragazzo mi facevano venire la pelle d'oca. Mi resi conto che stavo affondando le unghie nel muretto. Gli avrei messo le manette o gli avrei dato uno pugno pur di farlo smettere.
Gli altri archeologi si stancarono e non gli diedero più corda, così Macker, dopo aver alzato il dito medio all'indirizzo di Mark, sempre voltato di spalle, se ne tornò al suo pezzo di terra come se tutti gli occhi fossero ancora puntati su di lui. Di una cosa almeno potevo essere contento: non mi sarebbe più toccato di essere nuovamente un adolescente. Spensi la sigaretta su una pietra, e mi stavo abbottonando il cappotto per avviarmi verso la macchina quando, come un pugno allo stomaco, violento, goccia di veleno attraverso ghiaccio nero, fui colpito da un particolare: la cazzuola.
Rimasi lì, immobile, per un tempo indefinito. Sentivo il cuore battere, rapido, alla base della gola. Infine, mi abbottonai il cappotto, identificai Sean tra un gruppo di giacconi militari e mi diressi verso di lui attraverso lo scavo. Mi sentivo la testa curiosamente leggera, come se stessi camminando senza sforzo a cinquanta centimetri da terra. Gli archeologi mi lanciavano occhiate veloci mentre passavo: non ostili, ma deliberatamente neutrali.
Sean stava scavando via del terreno da un gruppo di pietre. Indossava delle cuffie sul berretto nero di lana e muoveva leggermente la testa al bam bam bam dell'heavy metal. «Sean» chiamai e mi parve che la mia stessa voce provenisse da un punto dietro le mie orecchie.
Non mi sentì, ma facendo un passo in avanti la mia ombra cadde su di lui, leggera nella luce grigia. Sollevò lo sguardo e, dopo aver armeggiato nella tasca per spegnere il walkman, si tolse le cuffie.
«Sean» gli dissi, «ti devo parlare.» Mark si girò di scatto verso di noi, scosse furiosamente la testa e si rimise al lavoro, sul terrapieno.
Condussi Sean verso il parcheggio. Si sedette sul cofano della Land Rover. Uno stormo di corvi si levò sopra gli alberi e volteggiò sulle nostre teste. I rami dai quali avevano spiccato il volo dondolarono per un po' come ubriachi. Sean tirò fuori dalla giacca una ciambella avvolta nella pellicola di plastica. «Allora, che c'è?» chiese, affabile.
«Ti ricordi che il giorno in cui fu trovato il corpo di Katharine Devlin io e la mia collega chiamammo Mark per interrogarlo?» chiesi. Mi impressionò come il tono della mia voce fosse calmo, normale e casuale, come se si trattasse tutto sommato di una cosa da niente. Interrogare le persone diventa una seconda natura. Ti entra nelle vene e, per quanto tu possa essere obnubilato, stanchissimo o sovreccitato, non cambia nulla: tono professionale e ritmo fermo, incalzante, via via che ogni risposta genera altre domande. «Poco dopo che lo avevamo riaccompagnato qui al sito, ti stavi lamentando perché non trovavi più la tua cazzuola.»
«Già» disse lui, con la bocca piena. «Ehi, non è un problema se mangio mentre parliamo, vero? Ho una fame bestiale e Hitler si fa venire un coccolone se mangio mentre lavoro.»
«No, non fa niente» dissi. «L'hai poi trovata, la tua cazzuola?»
Scosse la testa. «Ne ho dovuta comprare una nuova, bastardi.»
«Va bene, adesso pensaci bene» proseguii, «quando l'hai vista per l'ultima volta?»
«Nella baracca dei reperti» rispose immediatamente. «Quando trovai la moneta. Ma perché, volete arrestare quello che l'ha rubata?»
«Non proprio. Di che moneta parli?»
«Ho trovato una moneta» mi spiegò, disponibile. «Erano tutti eccitati perché sembrava antica e perché ne abbiamo trovate solo dieci in tutto lo scavo. La portai nella baracca dei reperti per farla vedere al dottor Hunt. La tenevo sulla cazzuola perché, se le tocchi, le monete antiche, le puoi rovinare con il grasso della pelle delle mani. Il dottore era tutto contento e cominciò a tirare fuori un sacco di libri per identificarla, poi si fecero le cinque e mezzo e ce ne andammo tutti a casa. Io dimenticai la cazzuola sul tavolo della baracca. Ci tornai la mattina dopo ma non c'era più.»
«Ed era giovedì» dissi, con la delusione nel cuore. «Il giorno in cui venimmo a parlare con Mark.» Ci avevo provato e non era andata. Non era un colpo facile e mi sorprese che ci stessi rimanendo male. Mi sentii un idiota e molto, molto stanco. Volevo solo andare a casa e dormire.
Sean scosse la testa e si leccò lo zucchero della ciambella dalle dita sporche. «No, no, prima» disse, e sentii il battito cardiaco che riprendeva vigore. «Non ci avevo più pensato perché non mi serviva, stavamo ripulendo quel maledetto canale di scolo. Credevo che me l'avesse presa qualcuno che poi si era dimenticato di restituirmela. Il giorno in cui veniste a prendere Mark fu quello in cui ne ebbi bisogno. Ma tutti a dire: "No, non l'ho vista", "No, no non l'ho mica presa io".»
«Quindi era facile da identificare. Chiunque l'avesse vista avrebbe saputo che era la tua?»