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Gli archeologi di Dublino, e cioè Damien, Sean e qualche altro, erano tutti a casa propria il lunedì e il martedì notte; il resto era nella casa che avevano affittato, a quattro-cinque chilometri dallo scavo; Hunt, che naturalmente si rivelò molto lucido su tutto ciò che riguardava l'archeologia, era rimasto a casa, a Lucan, con la moglie. Confermò la teoria della giornalista grassa secondo la quale la pietra su cui era stata gettata Katy era un altare sacrificale dell'Età del Bronzo. «Non siamo certi che si trattasse di sacrifici umani o animali, naturalmente, anche se… ehm… la forma indicherebbe che potrebbero essere stati umani. Le dimensioni sarebbero quelle giuste. Un manufatto molto raro. Significa che questa collina era un luogo di profonda importanza religiosa nell'Età del Bronzo, capite? Che peccato… questa strada.»

«Avete trovato altre strutture religiose druidiche?» chiesi. Se quel luogo si fosse rivelato una Newgrange Due, ci sarebbero voluti mesi prima di poter districare il caso dalla frenesia mediatica new age che si sarebbe scatenata.

Hunt mi rivolse uno sguardo ferito. «Assenza di evidenza non è evidenza di assenza» mi disse con tono di rimprovero.

Fu l'ultimo a essere interrogato. Mentre stavamo mettendo via la nostra roba, il tecnico giovane del laboratorio bussò debolmente alla porta e mise la testa dentro. «Ehm» cominciò. «Salve. Sophie mi manda a dirvi che per oggi abbiamo finito e che c'è un'altra cosa che forse dovreste vedere.»

Avevano raccolto gli indicatori e lasciato la pietra al suo destino, di nuovo in mezzo al campo, cosicché l'intero sito ora sembrava deserto; i giornalisti se n'erano andati da un pezzo e gli archeologi erano tornati tutti a casa, tranne Hunt, che in quel momento stava salendo su un'infangata Ford Fiesta rossa. Poi, fuori dall'agglomerato di baracche, scorsi qualcosa di bianco tra gli alberi.

La routine collaudata e senza scossoni dei colloqui era servita se non altro a stabilizzare il mio umore (Cassie chiama questi colloqui preliminari di esplorazione "fase del niente" del caso: nessuno ha visto "niente", nessuno ha sentito "niente", nessuno ha fatto "niente"), ciononostante sentii qualcosa che mi saettava lungo la spina dorsale mentre mettevamo piede nel bosco; non paura quanto piuttosto una scossa d'allarme, come quando qualcuno ti sveglia chiamandoti per nome o quando un pipistrello grida a un tono troppo elevato per poterlo sentire. Il sottobosco era spesso e morbido d'anni di foglie cadute che affondavano sotto il peso dei miei piedi, e gli alberi erano cresciuti abbastanza da filtrare la luce e trasformarla in un riverbero verde e incessante.

Sophie e Helen ci stavano aspettando in una piccola radura, un centinaio di metri all'interno. «Ho lasciato tutto così com'è perché poteste dare un'occhiata» spiegò Sophie, «ma voglio raccogliere tutta questa merda in un sacchetto prima che cominci a fare buio. Non voglio montare l'impianto di illuminazione.»

Qualcuno aveva usato la radura per campeggiarci. Una zona delle dimensioni di un sacco a pelo era stata liberata dai rami più appuntiti e lo strato di foglie appariva ben pressato; a qualche metro di distanza, in un ampio cerchio di terra nuda, c'erano i resti di un fuoco da campo. Cassie emise un fischio.

«È il punto dove è avvenuta l'uccisione?» domandai, senza troppa speranza. Se così fosse stato, Sophie sarebbe venuta a interrompere i nostri colloqui.

«Ma figuriamoci» rispose. «Abbiamo condotto una ricerca minuziosa: nessun segno di lotta e non una sola goccia di sangue. Si è rovesciato qualcosa vicino al falò ma il test è risultato negativo e dall'odore sono praticamente certa che sia vino rosso.»

«Allora è un campeggiatore d'alto bordo» commentai, inarcando le sopracciglia. Mi ero immaginato un barbone bucolico, ma le forze di mercato sono tali per cui "avvinazzato", in Irlanda, è un termine metaforico: l'ubriacone medio va a sidro forte o vodka da poco, non a vino. Mi chiesi se poteva trattarsi di una coppia con tendenze avventurose o nessun altro posto dove andare, ma le dimensioni dello strato di foglie schiacciate potevano accogliere a malapena una persona. «Trovato altro?»

«Analizzeremo la cenere per vedere se hanno bruciato abiti intrisi di sangue o roba del genere, ma sembra proprio solo legno. Abbiamo delle impronte di scarponi, cinque mozziconi di sigaretta e questo.» Sophie mi passò un sacchetto di plastica trasparente etichettato con un pennarello. Lo alzai verso la luce verde e Cassie si avvicinò per guardare da dietro la mia spalla: un capello, lungo, biondo e ondulato. «L'abbiamo trovato vicino al fuoco» chiarì Sophie, facendo scattare col pollice il cappuccio del pennarello.

«Abbiamo un'idea di quando è stato usato questo luogo?» chiese Cassie.

«Sulla cenere non è piovuto. Controllerò le precipitazioni di questa zona, ma so che dove vivo io è piovuto lunedì mattina presto.» Lo ricordavo anch'io: mi ero svegliato e pioveva, di quella pioggia sottile e stizzosa che sembra intenzionata a continuare all'infinito, anche se a mezzogiorno si era già schiarito. «E sto a soli cinque chilometri. Perciò qualcuno è stato qui ieri notte o la notte prima.»

«Posso vedere i mozziconi?» domandai.

«Fa' pure» disse Sophie. Trovai una maschera e un paio di pinzette nella mia borsa (avremmo potuto ricavare il DNA dai mozziconi o le impronte) e mi accovacciai vicino a uno degli indicatori posizionati nei pressi del falò. Il mozzicone era di una sigaretta arrotolata, sottile e fumata fino in fondo; uno che stava molto attento a non sprecare tabacco.

«Mark Hanly fuma sigarette fatte a mano» dissi mentre mi rialzavo. «E ha i capelli lunghi e biondi.»

Cassie e io ci guardammo. Erano già le sei passate e O'Kelly avrebbe chiamato di lì a poco per avere un primo rapporto. Con Mark ci avremmo messo un po', anche dando per scontato che non ci fossimo persi in quel dedalo di stradine e avessimo trovato la casa degli archeologi.

«Lascia stare, gli parliamo domani» risolse Cassie. «Voglio andare a trovare l'insegnante di balletto mentre rientriamo. E poi sto svenendo dalla fame.»

«È come avere un cagnolino» dissi a Sophie. Helen parve scioccata.

«Sì, ma col pedigree» protestò allegramente Cassie.

Notai che le mie scarpe erano un disastro, proprio come aveva previsto Mark, con robaccia rossastra e marrone in ogni cucitura, ed erano anche state delle belle scarpe. Mi consolai all'idea che anche quelle del killer sarebbero state nella stessa situazione. Mentre tornavamo alla mia auto attraverso il sito mi guardai indietro, verso il bosco, e vidi nuovamente un fluttuare di bianco: Sophie, Helen e il giovane tecnico del laboratorio si muovevano tra gli alberi, silenziosi e intenti come fantasmi.

La Cameron Dance Academy era ubicata sopra una videoteca di Stillorgan. In strada, tre ragazzi con pantaloni cascanti si esercitavano con gli skateboard su un muretto basso e gridavano. L'assistente dell'insegnante, una ragazza molto carina di nome Louise, indossava una tutina nera attillata e scarpette a punta anch'esse nere, oltre a una gonna lunga fino a metà polpaccio; Cassie mi rivolse un'occhiata divertita mentre la seguivamo lungo le scale. La ragazza ci fece accomodare e ci disse che Simone Cameron stava terminando una lezione, così attendemmo sul pianerottolo.

Cassie si spostò verso una bacheca di sughero appesa al muro e io mi guardai attorno. C'erano due sale, con piccole finestre rotonde sulle porte: in una, Louise stava mostrando a un gruppetto di bambini come fare la farfalla o l'uccellino o qualcosa del genere; nell'altra, una decina di ragazzine in tutù bianchi e calzamaglia rosa si muovevano in coppie con salti e giravolte, mentre in sottofondo, da un vecchio giradischi, proveniva un gracchiante Valse des Fleurs. Per quanto mi era possibile giudicare, c'erano, per usare un eufemismo, un'ampia gamma di abilità. La donna che insegnava aveva i capelli bianchi raccolti in una crocchia molto tirata, ma il corpo era snello ed essenziale come quello di una giovane atleta; era vestita come Louise e teneva in mano una bacchetta con la quale toccava le caviglie e le spalle delle ragazzine e impartiva istruzioni.