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C'era poco per essere stato un caso così rilevante. L'orologio di un bambino, un bicchiere di vetro da bibita, un gioco Donkey Kong di un arancio spento, tutti ricoperti di quella che sembrava polvere per rilevare le impronte. Foglie secche, pezzetti di corteccia… Un paio di calzini da ginnastica bianchi macchiati di una sostanza marrone scuro, con riquadri dove il rasoio aveva ritagliato campioni per sottoporli ai test; una maglietta bianca sudicia; dei calzoncini di tela blu sbiaditi, con gli orli che cominciavano a sfilacciarsi e, infine, le scarpe da ginnastica con i classici segni dell'usura e l'interno rigido, nero e deformato. Erano del tipo imbottito, ma il sangue era riuscito a passare all'interno: le tomaie presentavano minuscole macchie scure che partivano dalle cuciture e sulla parte superiore c'erano schizzi di colore marroncino più sbiadito dove il sangue era penetrato meno.

Mi ero preparato bene alla cosa. Avevo in parte previsto che vedere le prove avrebbe potuto scatenare una drammatica ondata di ricordi. Non mi ero aspettato di finire in posizione fetale sul pavimento dell'interrato, ma c'era un motivo per cui avevo scelto un momento in cui era improbabile che scendesse qualcuno a cercarmi. Nella realtà delle cose, però, mi rendevo conto, con un acuto senso di delusione, che nulla di quel materiale aveva il benché minimo aspetto familiare, tranne, è vero, il Donkey Kong di Peter, che forse era lì solo per rilevarvi le impronte e confrontarle con altre e che diede vita a una fiammata di ricordi, breve quanto inutile: io e Peter seduti sulla moquette illuminata dal sole, con un pulsante ciascuno, concentrati e sgomitanti, Jamie in piedi alle nostre spalle che gridava istruzioni eccitate. Si trattò però di un'esperienza così intensa che mi parve quasi di sentire le acute segnalazioni acustiche del gioco. I vestiti, anche se li sapevo miei, non fecero trillare alcun campanello; sembrava inconcepibile che mi fossi effettivamente alzato una mattina e li avessi indossati. Riuscivo a coglierne solo le emozioni collegate: quanto era piccola la maglietta, il Topolino disegnato con la biro sulla punta di una delle scarpe. Dodici anni, all'epoca, erano sembrati incredibilmente tanti.

Presi il sacchetto con la maglietta e lo girai tra pollice e indice. Avevo letto degli squarci sulla schiena ma non li avevo mai visti e in qualche modo li trovai ancora più scioccanti di quelle terribili scarpe. Avevano un che di innaturale, quelle linee parallele perfette, quegli archi precisi e poco profondi; un'impossibilità aspra e implacabile. "Rami?" pensai, scrutandoli come se stessi fissando il vuoto. Ero saltato da un albero o mi ero accovacciato in un cespuglio e la maglietta era rimasta impigliata in quattro rami contemporaneamente? Sentii un pizzicore alla schiena, tra le scapole.

D'un tratto e senza che potessi oppormici desiderai essere da qualche altra parte. Il soffitto basso premeva in maniera claustrofobica e l'aria polverosa era diventata irrespirabile, il silenzio oppressivo. L'unica cosa che di tanto in tanto percepivo erano le inquietanti vibrazioni che il passaggio degli autobus produceva sulle pareti. Praticamente ributtai tutta la roba nella scatola, la issai sullo scaffale (i contenitori a destra e a sinistra si erano allargati e per un istante ebbi paura che la scatola non entrasse più) e afferrai le scarpe, che avevo lasciato sul pavimento, per consegnarle a Sophie.

Fu solo in quel momento che mi colpì, lì nel freddo interrato, tra quei casi semidimenticati e gli impercettibili scricchiolii delle buste di plastica che riprendevano la loro forma nelle scatole, l'immensità di ciò che avevo messo in moto. A causa di tutto quello che avevo in mente, non ero riuscito a pensare alla faccenda in maniera completa. Il vecchio caso sembrava una cosa talmente privata da farmi dimenticare che avrebbe potuto avere implicazioni anche nel mondo esterno. Ma stavo portando quelle scarpe nella sala operativa (cosa diavolo andavo pensando?), le avrei messe in una busta imbottita e avrei detto a uno degli agenti di portarle a Sophie.

Sarebbe successo comunque, prima o poi, perché i casi dei bambini scomparsi non sono mai chiusi. Questione di tempo e qualcuno avrebbe deciso di sottoporre le vecchie prove alle nuove tecnologie. Ma se il laboratorio fosse riuscito a ricavare il DNA dalle scarpe e, in particolare, se fossero riusciti a compararlo col sangue trovato sulla pietra sacrificale, allora non si sarebbe più trattato di una pista secondaria nel caso Devlin, di un'ipotesi campata per aria tra noi e Sophie: il vecchio caso sarebbe esploso nuovamente, sarebbe stato di nuovo un caso aperto. Tutti, da O'Kelly in su, avrebbero fatto il diavolo a quattro perché fossero applicate le nuove tecnologie a quelle prove: la Garda non molla mai, nessun caso irrisolto viene archiviato, l'opinione pubblica può stare certa che dietro le quinte ci muoviamo, silenziosi ma implacabili. I media sarebbero piombati come falchi sulla possibilità che ci fosse un serial killer di bambini tra noi. E avremmo dovuto fare quello che era necessario: prelevare campioni di DNA dei genitori di Peter e della madre di Jamie e… oh, mio Dio… di Adam Ryan. Osservai le scarpe ed ebbi l'improvvisa immagine mentale di un'auto: i freni non reggono e lo scivolamento giù per una collina ha inizio, dapprima piano, senza danni, quasi comico, poi sempre più veloce, finché non trasforma l'auto in una palla da demolizione, impietosa e incurante.

4

Riaccompagnammo Mark al sito e lo lasciammo a rimuginare foscamente sui sedili posteriori dell'auto mentre io parlavo con Mel nella baracca dei reperti (dovemmo buttare fuori un tipo dall'aria sbigottita chiamato Ronan, che stava disegnando dei frammenti di vasellame e che chiaramente concluse che Mark e Mel stavano per essere arrestati per omicidio) e Cassie scambiava quattro chiacchiere con i loro coinquilini.

Mel, quando le chiesi come aveva trascorso la serata di martedì, diventò rossa come un peperone e non riuscì a sostenere il mio sguardo, ma disse che lei e Mark avevano parlato in giardino fino a tardi, che alla fine si erano baciati e che avevano passato il resto della notte nella stanza di lui. Mark se n'era andato solo una volta, per una visitina al bagno, e non si era assentato per più di due minuti. «Ci siamo trovati bene insieme fin dall'inizio e gli altri ci hanno sempre presi in giro per questo. Ma immagino che fosse scritto nelle carte.» Anche lei confermò che Mark di tanto in tanto passava la notte fuori casa e che le aveva detto di aver dormito nel bosco di Knocknaree. «Non so però se gli altri ne sono al corrente. È riservato su questa cosa.»

«Non la trovi un po' strana?»

Si strinse nelle spalle e si massaggiò la nuca. «È un tipo intenso. È una delle cose che mi piacciono di lui.» Cielo, era così giovane. Frenai l'impulso improvviso di darle un colpetto affettuoso su una spalla e di ricordarle di usare protezioni.

Gli altri coinquilini raccontarono a Cassie che Mark e Mel si erano fermati da soli, in giardino, martedì sera, che erano usciti dalla stanza di lui insieme la mattina dopo e che tutti avevano passato le prime ore della giornata, cioè fino a quando non era stato scoperto il corpo di Katy, a prenderli pesantemente in giro per la faccenda. Confermarono anche loro che ogni tanto Mark restava fuori, ma non sapevano dove andava. La loro versione di "tipo intenso" variava da "un po' strano" a "vero schiavista".

Trovammo qualcosa da mettere sotto i denti per Cassie (altri sandwich plasticosi presi dal negozio di Lowry) e pranzammo seduti sul muro della zona residenziale. Mark stava organizzando gli archeologi per qualche altra attività, facendo ampi gesti e scatti combattivi come un vigile urbano intento a dirigere il traffico. Sentivo Sean che si lamentava a voce alta di qualcosa e tutti gli altri che gli gridavano di chiudere la bocca, di piantarla di fare il lavativo e di mettersi sotto.