«Lo giuro su Dio, Macker, se la trovo tra la tua roba te la infilo su per il culo così a fondo che…»
«Ooh, Sean ha la sindrome premestruale…»
«Hai controllato su per il tuo, di culo?»
«Magari i poliziotti l'hanno portata via, Sean, stai tranquillo, su.»
«Vai a lavorare, Sean» gridò Mark.
«Non lavoro senza la mia cazzo di cazzuola!»
«Fattene prestare una.»
«Qui ne cresce una» strillò qualcuno. Una cazzuola passò velocemente di mano in mano, la lama che mandava riflessi. Sean la prese e si mise al lavoro, ma continuò a brontolare.
«Se avessi dodici anni» mi chiese Cassie, «cosa ti spingerebbe a venire qui fuori nel bel mezzo della notte?»
Ripensai al debole cerchio di luce che palpitava come un fuoco fatuo tra radici di alberi tagliati e resti di antichi muri; l'osservatore silenzioso nel bosco. «L'abbiamo fatto un paio di volte» dissi. «Di trascorrere la notte nella nostra casetta sull'albero. Il bosco era molto più esteso allora, fin su verso la strada.» Sacchi a pelo su assi di legno ruvido, torce accese tenute vicino alle pagine dei fumetti, sobbalzi a ogni fruscio, occhi dorati e selvaggi a pochi alberi di distanza, noi tutti a urlare, Jamie che lanciava un mandarino, la cosa che balzava via con uno schianto di foglie…
Cassie mi lanciò un'occhiata da sopra la confezione di succo di frutta. «Sì, ma eri con i tuoi amici. Cosa ti farebbe uscire da solo?»
«Incontrare qualcuno… una sfida… magari per recuperare qualcosa di importante che ho dimenticato qui. Parliamo con le sue amiche, vediamo se aveva detto loro qualcosa.»
«Non è stata un'occasione casuale» disse Cassie. Gli archeologi avevano rimesso gli Scissor Sisters e lei dondolava un piede, senza accorgersene, a ritmo. «Anche se non si tratta dei genitori. Il nostro non è uscito per prendersi la prima bambina indifesa che ha trovato. Era tutto molto ben pianificato. Non era solo alla ricerca di un bambino da ammazzare; stava cercando proprio Katy.»
«E conosceva il posto piuttosto bene» aggiunsi, «se è riuscito a trovare la pietra sacrificale al buio, trasportando anche un corpo. Sembra sempre più uno di qui.» Sotto il sole, il bosco era gaio e scintillante, con il canto degli uccelli, le foglie smosse dalla brezza, Robin Hood e i suoi allegri compari. E dietro di me, avvertibile, la presenza innocua di file e file di abitazioni identiche. "Posto maledetto" fui lì lì per dire, ma mi trattenni.
Finiti i sandwich, andammo a trovare la zia Vera e le cugine. Faceva caldo, era ancora pomeriggio, ma il quartiere aveva un che di vuoto, strano e misterioso, da nave fantasma. Le finestre erano chiuse, sigillate, e non c'era un solo bambino fuori a giocare. Erano tutti in casa, confusi e irrequieti, ma al sicuro sotto gli occhi dei loro genitori, e cercavano di origliare i bisbigli degli adulti, di scoprire cosa stesse succedendo.
I Foley erano una banda poco simpatica. La quindicenne si sistemò su una poltrona, a braccia incrociate e busto eretto come una mammina, e ci rivolse uno sguardo scialbo, annoiato e arrogante; la ragazzina di dieci anni sembrava il maialino di un cartone animato e masticava gomma con la bocca aperta, dimenando il sedere sul divano e di tanto in tanto mostrando la gomma sulla lingua per poi risucchiarla in bocca. Quanto al minore, era uno di quei bambini piccoli che ti sconcertano perché sembrano adulti bonsai. Aveva una faccia compassata e tozza con il naso a becco e mi fissava dal grembo di Vera, arricciando le labbra e ritraendo il mento con disapprovazione nelle pieghe del collo. Ero orribilmente certo che se avesse detto qualcosa lo avrebbe fatto con la voce profonda e rauca di uno che fuma quaranta sigarette al giorno. La casa puzzava di cavolo, forse quello rimasto dal pranzo. Non riuscivo a capire come Rosalind e Jessica potessero decidere di passarci del tempo, e il fatto che in effetti lo facessero era una cosa che mi preoccupava.
Con l'eccezione del bambino piccolo, tutti raccontarono la stessa storia. Rosalind e Jessica, e a volte Katy, passavano la notte lì di tanto in tanto. «Mi piacerebbe averle più spesso, naturalmente» disse Vera, tormentando ansiosamente l'angolo di una copertina del divano, «ma proprio non posso, non con i miei nervi, capite.» Meno spesso, Valerie e Sharon restavano dai Devlin. Nessuno sapeva esattamente di chi fosse stata l'idea di dormire da uno o dall'altro, anche se Vera pensava vagamente che poteva essere stata un'idea di Margaret. Il lunedì sera Rosalind e Jessica erano arrivate intorno alle otto e mezzo, avevano guardato la televisione e avevano giocato con il piccolo, anche se non riuscivo proprio a immaginare come; si era mosso a malapena per tutto il tempo che eravamo rimasti lì. Doveva essere stato come giocare con una grossa patata. Poi erano andate a dormire, intorno alle undici, dividendosi un letto da campeggio nella stanza di Valerie e di Sharon.
Ed era da qui che forse era partito il problema: le ragazze, non poteva essere altrimenti, erano rimaste sveglie a chiacchierare e a sghignazzare per quasi tutta la notte. «Sono delle ragazze meravigliose, signori agenti, non dico il contrario, ma alle volte i giovani non capiscono quanto possono essere pesanti per noi grandi, non è vero?» Vera ridacchiò con un po' d'affanno e diede di gomito alla figlia mediana che si spostò un po' più in là sul divano. «Sono dovuta andare a dire loro non so quante volte di stare buone… non sopporto il rumore, capite. Dovevano essere le due e mezzo del mattino quando alla fine si sono decise ad andare a dormire, immaginate voi. E a quel punto i miei nervi erano in un tale stato che non sono più riuscita a riposare. Mi sono dovuta alzare a prepararmi una tazza di tè. Non ho dormito neanche un po'. La mattina dopo ero distrutta. E quando Margaret ha chiamato, siamo tutte impazzite, non è vero, ragazze? Ma non avrei mai immaginato… senza alcun dubbio, pensavo fosse solo…» Si premette una piccola mano tremante sulla bocca.
«Torniamo alla sera prima» disse Cassie rivolta alla maggiore. «Di cosa avete parlato tu e le tue cugine?»
La ragazzina, credo Valerie, roteò gli occhi e sporse il labbro per mostrare quanto fosse stupida la domanda. «Cose.»
«Avete parlato di Katy, per caso?»
«Non lo so. S…s…sì, forse sì. Rosalind diceva che era una gran cosa che andasse alla scuola di balletto. Non vedo cosa ci sia di così fantastico.»
«E i vostri zii? Avete parlato anche di loro?»
«Sì. Rosalind diceva quanto sono stronzi con lei. Non la lasciano mai fare nulla.»
Vera emise un urletto sfiatato. «Ma dai, Valerie, non dire così! Guardate, signori agenti, Margaret e Jonathan farebbero qualsiasi cosa per quelle ragazze, anche loro sono esausti…»
«Oh, sì, come no? Immagino che sia per questo che Rosalind è scappata, perché erano troppo carini con lei.»
Cassie e io fummo sul punto di balzare sulla cosa, ma Vera ci precedette. «Valerie! Cosa ti ho detto? Di queste cose non si parla. È tutto un malinteso, Rosalind è stata una sfrontata a far spaventare i suoi poveri genitori in quel modo, ma è tutto perdonato e dimenticato…»
Aspettammo che avesse finito, poi: «Perché Rosalind è scappata?» chiesi a Valerie.
Valerie fece spallucce. «Non ce la faceva più con suo padre che la comandava a bacchetta. Credo che l'abbia picchiata o qualcosa del genere.»
«Valerie! Sentite, signori agenti, non so proprio da dove le sia venuta in mente. Jonathan non alzerebbe mai un dito sulle sue figlie, assolutamente no. Rosalind è una ragazza sensibile, ha discusso con suo padre e lui non si è reso conto di quanto fosse sconvolta…»
Valerie si appoggiò allo schienale e mi fissò, un sorrisetto furbo che modificava leggermente i suoi lineamenti atteggiati a un'espressione annoiata ormai incancellabile. La figlia mediana si pulì il naso con la manica ed esaminò con interesse il risultato.
«Quando è stato?» chiese Cassie.
«Oh… non ricordo bene. Tempo fa, l'anno scorso, credo…»
«Maggio» intervenne Valerie. «Questo maggio.»