«E Peter?»
«Peter era il capo» dissi. «Da sempre, anche quando eravamo piccolissimi. Riusciva a parlare con chiunque e parlando ci toglieva sempre da qualsiasi impiccio. Non che fosse un saputello, non lo era per niente, ma era sicuro di sé e gli piaceva la gente. E poi era gentile.»
C'era un bambino nella nostra strada, Willy Little. Il nome stesso, più o meno l'equivalente di Pisellino, sarebbe bastato a causargli guai a sufficienza… mi chiedo a cosa diavolo stessero pensando i suoi genitori quando gli avevano dato quel nome. A parte questo, aveva le lenti degli occhiali spesse come fondi di bottiglia, e per problemi respiratori indossava tutto l'anno grossi maglioni fatti a mano con coniglietti sul davanti, oltre a cominciare tutte le sue frasi con: «La mia mamma dice che…». L'avevamo torturato allegramente tutta la vita, facendogli dei disegnini sui quaderni, sputandogli in testa dalla cima degli alberi, tenendo da parte le cacche del coniglio di Peter e dicendogli che erano uvette ricoperte di cioccolato, quel genere di cose… Ma l'estate dei nostri dodici anni Peter ci fece smettere. «Non è giusto» disse. «Non è colpa sua.»
Jamie e io non eravamo completamente d'accordo. Willy poteva benissimo farsi chiamare Bill e smettere di dire alla gente cosa ne pensava sua madre delle cose, sostenevamo, ma la smettemmo di tormentarlo. Mi sentivo in colpa per cui la volta dopo che lo vidi gli offrii una mezza barretta di Mars, ma lui, comprensibilmente, mi guardò con fare sospettoso e se la filò. Mi chiesi distrattamente cosa ne fosse stato di Willy. In un film sarebbe diventato un genio, vincitore del premio Nobel, con una moglie top model; ma visto che la vita reale era un'altra, probabilmente si stava guadagnando da vivere come cavia per la ricerca medica e continuava a portare maglioni con i coniglietti.
«È una cosa rara» disse Cassie. «La maggior parte dei bambini a quell'età è pestifera. Io di certo lo ero.»
«Credo che Peter fosse un bambino speciale» commentai.
Si fermò a raccogliere una conchiglia di un brillante colore arancione e la esaminò attentamente. «C'è ancora la possibilità che siano vivi, vero?» Ripulì la conchiglia dalla sabbia contro la manica e ci soffiò sopra. «Da qualche parte.»
«Immagino di sì» concessi. Peter e Jamie, là fuori da qualche parte, puntini di volti che si fondevano in una folla dal movimento rapido. Quando avevo dodici anni, in qualche modo, quella era per me l'ipotesi peggiore: che quel giorno avessero semplicemente continuato a correre, che mi avessero lasciato indietro e che non si fossero mai voltati. Ancora oggi mi è rimasta l'abitudine di osservare con attenzione tutte le facce che incontro, e di cercarli in mezzo alla ressa, negli aeroporti, ai concerti, nelle stazioni ferroviarie; adesso meno, ma quando ero più giovane mi prendeva una sorta di panico che mi costringeva a voltare la testa a destra e a sinistra come il personaggio di un cartone animato, terrorizzato all'idea che proprio il viso che stavo perdendo potesse essere di uno di loro. «Però ne dubito, c'era un sacco di sangue.»
Cassie, che si stava mettendo la conchiglia in tasca, mi fissò per un istante. «I dettagli non li conosco.»
«Ti lascio il fascicolo» le risposi. Mi seccò che mi fosse costato un certo sforzo per dirglielo, come se le stessi consegnando il mio diario o qualcosa del genere. «Vediamo cosa ne tiri fuori tu.»
La marea cominciava a salire. La spiaggia di Sandymount discende così dolcemente che con la bassa marea il mare è quasi invisibile, un minuscolo bordo grigio all'orizzonte. Ma poi ripiomba con una velocità da capogiro da ogni direzione, contemporaneamente, e a volte la gente rimane bloccata. Ancora pochi minuti e sarebbe arrivata ai nostri piedi. «Sarà meglio rientrare» disse Cassie. «Viene Sam a cena, ricordi?»
«Ah, giusto» risposi, senza tanto entusiasmo. Sam mi piace, Sam piace a tutti, tranne che a Cooper, ma non ero certo di essere dell'umore per vedere altre persone. «Perché l'hai invitato?»
«Il caso?» fece lei, in tono soave. «Lavoro? Persona morta?» Le rivolsi una smorfia e lei mi ricambiò con un gran sorriso.
I due bambini nel passeggino si stavano picchiando con giocattoli dai colori brillanti. «Britney! Justin!» urlò la loro madre. «Piantatela o v'ammazzo tutti e due, cazzo!» Misi un braccio intorno al collo di Cassie e riuscii a spingerla a distanza di sicurezza prima di scoppiare a ridere.
Comunque, alla fine mi adattai alla vita di collegio. Quando i miei genitori mi accompagnarono all'inizio del secondo anno (con me che piangevo, imploravo, mi attaccavo alla maniglia della portiera dell'auto e il direttore che, schifato, mi agguantava alla vita e, a una a una, mi staccava le dita dal mio disperato appiglio) capii che, a prescindere da quello che avessi fatto o da quanto avessi pregato, non mi avrebbero lasciato tornare a casa. Smisi così di provare nostalgia di casa.
In realtà, credo di non avere avuto scelta. L'incessante infelicità del primo anno mi aveva consumato quasi al punto di rottura (mi ero abituato ai momenti di capogiro quando mi alzavo in piedi, momenti in cui non ricordavo il nome di un compagno o come si arrivava alla sala mensa) e anche la resistenza di un tredicenne ha i suoi limiti; ancora qualche mese così e probabilmente mi sarei ritrovato in preda a un imbarazzante crollo nervoso. Non ci arrivai perché nei momenti critici, come dicevo, emerge il mio istinto di sopravvivenza. Dopo quella prima notte del secondo anno, in cui piansi fino a sfinirmi, mi svegliai la mattina successiva e decisi, alla Rossella O'Hara, che non avrei più sentito nostalgia di casa.
Dopodiché scoprii, con un po' di sorpresa, che era relativamente facile abituarsi. Senza volerlo, avevo appreso lo strano slang della scuola, e nel giro di una settimana il mio accento passò dall'intonazione di Dublino a quella della zona intorno a Londra. Divenni amico di Charlie, che era seduto vicino a me durante le lezioni di geografia. Aveva una faccia tonda e solenne e una divertentissima e irresistibile risata chioccia. Quando fummo grandi abbastanza, condividemmo uno studio e delle canne sperimentali che ci aveva dato suo fratello, che stava a Cambridge. Facevamo anche lunghe, confuse e struggenti conversazioni sulle ragazze. I miei risultati accademici erano mediocri, per usare un eufemismo; mi ero così assuefatto all'idea della scuola come di un destino al quale non si poteva sfuggire che avevo difficoltà a immaginare che ci potesse essere qualcosa a quel microcosmo, e quindi mi era quasi impossibile ricordare perché in teoria stessi studiando. Mi rivelai però un bravo nuotatore, tanto da permettermi di entrare nella squadra della scuola, il che mi fece guadagnare molto più rispetto, sia dagli insegnanti sia dagli studenti, di quello che avrei ottenuto con buoni risultati agli esami. Al quinto anno, e non ho mai capito bene perché, divenni perfino prefect. Tendo ad attribuire la cosa, come anche la nomina alla Omicidi, al fatto che ho la faccia perfetta per quella parte.
Trascorsi molte delle vacanze a casa di Charlie, nello Herefordshire, mi innamorai delle sue sorelle e imparai a guidare con la vecchia Mercedes di suo padre: strade di campagna dissestate, finestrini abbassati e Bon Jovi a volume indecente dallo stereo, con noi che cantavamo con tutto il fiato che avevamo in corpo. Scoprii che non avevo più una gran voglia di tornare in Irlanda. La casa di Leixlip non mi diceva nulla, era scura e puzzava di umido. Inoltre mia madre aveva sistemato le mie cose nel modo sbagliato nella nuova stanza; l'impressione che ne ricavavo era come di estraneità, di qualcosa di temporaneo, quasi un rifugio messo assieme in fretta e furia, certamente non quella di trovarmi a casa. Tutti gli altri bambini della strada avevano tagli di capelli da far paura e, cosa per me incomprensibile, mi prendevano in giro per il mio accento.
I miei genitori avevano notato il cambiamento e, invece di essere contenti che mi fossi inserito a scuola, come sarebbe stato normale, sembravano presi alla sprovvista; erano nervosi in presenza di questa persona a cui non erano più abituati e che stava diventando padrona di sé. Mia madre andava in giro per casa in punta di piedi e mi chiedeva timidamente cosa volevo per cena; con colpetti di tosse e fruscii di giornale, mio padre cercava sempre di avviare conversazioni da uomo a uomo che invariabilmente si incagliavano contro il mio silenzio passivo e distratto. Razionalmente, avevo capito che mi avevano mandato in collegio per proteggermi dalle ondate di giornalisti, dai futili interrogatori della polizia e da compagni di classe curiosi. Ero anche consapevole che probabilmente era stata un'ottima decisione; ma nel profondo, una parte irragionevole di me credeva in maniera inoppugnabile e inesprimibile, e forse anche con un minimo di giustificazione, che il vero motivo per cui mi avevano mandato via era che avevano paura di me. Come un bambino deforme che non avrebbe mai dovuto superare i primi momenti di vita o un gemello siamese scampato alla separazione dall'altro, morto sotto i ferri, ero diventato – per il semplice fatto di essere sopravvissuto – uno scherzo della natura.