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Rimasi lì per quasi due anni. Per la maggior parte del tempo vivevo col sussidio di disoccupazione; di tanto in tanto, quando cominciavano a rompermi le scatole, o se volevo dei soldi per far colpo su una ragazza, lavoravo qualche settimana come traslocatore o come manovale. Non avevo bisogno di granché; i pochi abiti che avevo provenivano essenzialmente da negozi di vendite di beneficenza, potevo vivere perfettamente felice nutrendomi di spaghetti in scatola con sugo di carne e un po' di alcol ogni tanto e non è che frequentassi pub, discoteche o locali del genere. Inevitabilmente, Charlie e io ci allontanammo, e credo che la cosa cominciò la prima volta che, sconvolto, vide il monolocale in cui vivevo. Ci incontravamo per una pinta ogni dieci, quindici giorni e di tanto in tanto andavo a delle feste con lui e i suoi nuovi amici. Era in quelle occasioni che conoscevo gran parte delle ragazze e fu in una di quelle occasioni che conobbi anche l'angosciata Gemma col suo problema d'alcolismo. A quelle feste sarei forse potuto andarci più spesso, ma non ne avevo voglia. Erano gente simpatica, i suoi amici dell'università, ma parlavano un linguaggio che non capivo né ambivo di capire, pieno di battute chiare solo alla loro ristretta cerchia, abbreviazioni e pacche sulle spalle. Mi riusciva difficile dedicare loro la mia attenzione.

Non sono certo di ciò che feci in quei due anni. Per un bel po' di tempo, credo, nulla. So che questo è impensabile nella nostra società: avrei dovuto fare qualcosa e contribuire all'economia, qualsiasi cosa, o almeno migliorare la mia salute cardiovascolare, ma avevo scoperto in me un talento per una meravigliosa e impenitente pigrizia, del tipo che la maggior parte della gente non conosce più dopo l'infanzia. Avevo un prisma appeso alla finestra (l'avevo trovato in un negozietto che vendeva un po' di tutto a Camden; credo che in origine facesse parte di un candelabro) e passavo pomeriggi interi disteso sul letto a osservare le piccole scaglie di arcobaleno che lanciava per la stanza.

Lessi moltissimo. Ho sempre letto molto, il voto più alto della maturità era quello in letteratura inglese, ma in quei due anni mi abbuffai di libri con un'ingordigia voluttuosa, quasi erotica. Andavo alla biblioteca di quartiere e prendevo quanti più libri potevo. C'era una bibliotecaria con un forte istinto materno, alla quale dispiaceva vedere i buchi nei miei jeans, che me ne lasciava prendere più del lecito, di nascosto. Poi mi chiudevo nel mio monolocale e non facevo che leggere per una settimana. Preferivo i libri vecchi, più lo erano meglio era: Tolstoj, Poe, le tragedie del periodo di Giacomo I, una polverosa traduzione di Laclos. Quando alla fine riemergevo, annebbiato e confuso, mi ci volevano giorni per smettere di pensare con i loro ritmi algidi, rifiniti e cristallini.

Guardai anche tantissima TV. Non so perché, ma nell'affitto era inclusa la TV via cavo e nel corso del secondo anno mi appassionai ai documentari sui crimini veri che mandavano in onda la sera tardi, soprattutto su Discovery Channeclass="underline" non per i crimini in se stessi, che avevo sempre trovato incredibilmente squallidi e primitivi, ma per le intricate strutture delle soluzioni. Amavo il coinvolgimento stabile e intenso con il quale quegli uomini – abili bostoniani dell'FBI, panciuti sceriffi texani – districavano con cura i fili e univano i pezzi del puzzle, fino a quando tutto andava al proprio posto e la risposta saltava fuori ai loro ordini e galleggiava nell'aria davanti a loro, brillante e inoppugnabile. Erano come dei maghi che gettavano una manciata di straccetti in un cilindro, lo percuotevano con la loro bacchetta e, tra squilli di trombe, sfilavano poi una striscia di seta perfetta; solo che qui era mille volte meglio perché le risposte erano vere, vitali e non c'erano trucchi, o perlomeno così pensavo io.

Sapevo che nella vita vera non funzionava così, non tutte le volte, almeno, ma mi colpì come una cosa sbalorditiva il fatto che potesse esserci un lavoro in cui esistesse persino una possibilità del genere. Quando, tutto nello stesso mese, Charlie si fidanzò, la padrona di casa mi comunicò che vendeva lo stabile e l'ufficio che emetteva gli assegni di disoccupazione mi informò che con gente come me non avrebbero più avuto nulla a che fare, mi parve ovvio reagire tornando in Irlanda, fare domanda alla scuola di polizia di Templemore e mettermi in fila per diventare detective. Non mi mancava il mio monolocale – al pianterreno si era trasferito un tipo che adorava dell'orribile musica rap, e comunque avevo cominciato ad annoiarmi -, ricordo però ancora quei due anni meravigliosi, irresponsabili, autoindulgenti, come uno dei periodi più felici della mia vita.

Sam se ne andò intorno alle 23.30; Ballsbridge è a pochi minuti a piedi da Sandymount. Mi lanciò una breve occhiata interrogativa, mentre si metteva la giacca. «Tu da che parti vai?»

«Mi sa che hai perso l'ultimo treno» mi disse tranquillamente Cassie. «Puoi sistemarti sul divano, se vuoi.»

Avrei potuto dirle che me ne sarei tornato a casa in taxi, ma decisi che forse aveva ragione lei: Sam non era Quigley, non saremmo arrivati in ufficio la mattina dopo accolti da sorrisetti e doppi sensi, mica poi tanto doppi. «Credo anch'io» concordai dando un'occhiata all'orologio. «Ti dispiace?»

Se Sam rimase stupito, lo nascose bene. «Ci vediamo domattina, allora» salutò allegramente. «Dormite bene.»

«Gli piaci» dissi a Cassie, quando se ne fu andato.

«Dio santo, quanto sei prevedibile» rispose, frugando nell'armadio in cerca di un piumino in più e della maglietta che lascio sempre lì.

«"Oh, fammi sentire cos'ha da dire Cassie… Oh, Cassie, sei così brava…"»

«Ryan, se Dio mi avesse voluta con un orribile fratello adolescente, me ne avrebbe rifilato uno. E poi il tuo accento di Galway fa schifo.»

«Anche a te lui piace?»

«Se così fosse, mi sarei esibita nel mio famosissimo giochetto del picciolo di ciliegia al quale faccio il nodo con la lingua.»

«Non ci credo. Fammelo vedere.»

«Stavo scherzando. Vai a dormire.»

Tirammo fuori il futon; Cassie accese l'abat-jour e io spensi la luce, così che il suo monolocale rimase in penombra, accogliente e caldo. Pescò la maglietta lunga fino alle ginocchia che usa per dormire e se la portò in bagno per cambiarsi. Infilai i calzini nelle scarpe e le spinsi sotto il divano, Cassie è sempre la prima ad alzarsi e non volevo che vi inciampasse. Mi svestii, rimasi in boxer, mi misi la maglietta e mi infilai sotto il piumino. Avevamo ormai una routine ben oliata. La sentivo che si lavava la faccia e cantava una canzoncina folk che non conoscevo, in una chiave minore. «Alla Regina di Cuori va l'Asso di Dolori; oggi lui c'è, domani non c'è più…» Era partita con un'intonazione troppo bassa e la nota finale sparì in un borbottio.

«Ti senti veramente così rispetto al nostro lavoro?» le chiesi, quando uscì dal bagno. Era a piedi nudi e i suoi polpacci erano lisci e muscolosi come quelli di un ragazzo. «Quello che prova Mark per l'archeologia?»

Mi ero tenuto la domanda in serbo per quando Sam se ne fosse andato. Cassie mi lanciò un sorrisetto di traverso. «Non ho mai versato roba da bere sulla moquette della sala operativa. Lo giuro.»

Attesi. Lei si infilò a letto, si sollevò su un gomito e appoggiò la guancia sulla mano chiusa. La luce dell'abat-jour le delineava i contorni, sembrava semitrasparente, una ragazza dietro una finestra con i vetri istoriati. Non ero certo che avrebbe risposto, anche senza la presenza di Sam, ma dopo un momento disse: «Abbiamo a che fare con la verità, con lo scoprire la verità. È una cosa seria».

Ci pensai. «È per questo che non ti piace mentire?» Questa è una delle piccole manie di Cassie, particolarmente strana in un detective: omette cose, elude furbescamente le domande o lo fa in modo così sottile che neppure te ne accorgi, tira fuori frasi fuorvianti con la competenza di un illusionista, ma, che io sappia, non ha mai mentito apertamente, nemmeno a un sospetto.