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Il fuoco nel caminetto scoppiettava allegramente. Con la coda dell'occhio mi parve di cogliere qualcosa che da lì balzava verso la stanza e mi girai di scatto. Una cosa piccola, nera e con gli artigli, magari un uccellino finito giù per il camino? Ma non c'era niente. Quando mi rigirai, Sam mi stava guardando con i suoi occhi grigi e calmi, amichevoli. Si limitò a sorridere e a sporgersi sul tavolo per riempirmi il bicchiere.

Facevo fatica a addormentarmi anche quando ne avevo l'opportunità. Mi capita spesso, come ho detto, ma in quella situazione era diverso: durante quelle settimane continuavo a scoprirmi intrappolato in una zona confusa fra il sonno e la veglia, incapace dell'uno o dell'altra. "Attento!" mi urlavano all'improvviso delle voci nell'orecchio. Oppure: "Non riesco a sentirti. Cosa? Cosa?". Sognavo di intrusi che si aggiravano furtivamente per casa, scorrevano i miei appunti di lavoro, maneggiavano le mie camicie nell'armadio. Sapevo che non potevano essere reali, ma mi ci voleva un eterno momento di panico per svegliarmi e combatterli o vederli svanire. Una volta mi ritrovai addossato alla parete accanto alla porta della camera da letto, che brancolavo selvaggiamente nel buio alla ricerca dell'interruttore della luce, le gambe a malapena in grado di sorreggermi. Mi girava la testa e udivo un gemito attutito che proveniva da qualche parte. Ci misi un bel po' a capire che si trattava della mia voce. Accesi la luce e arrancai di nuovo verso il letto, dove rimasi, troppo scosso per riaddormentarmi, fino al suono della sveglia.

In quel limbo, continuavo anche a sentire voci di bambini. Non erano quelle di Peter e Jamie: erano bambini molto lontani che cantavano filastrocche che non ricordavo di sapere. Le loro voci erano allegre, spensierate e troppo pure per essere umane, accompagnate dall'animato ritmo di un complesso battimani. Say say my playmate, come out and play with me, climb up my apple tree… See my king all dressed in red, bet you five shillings that he'll kill you dead…* A volte quei deboli ritornelli mi rimanevano in testa per tutto il giorno, ineludibile musica di sottofondo a tutto quello che facevo. Vivevo nel terrore che O'Kelly mi sentisse canticchiarli. Rosalind mi chiamò sul cellulare il giorno seguente. Ero in sala operativa, Cassie era andata a parlare con quelli della sezione Persone scomparse. Dietro di me, O'Gorman stava sbraitando perché un tizio non lo aveva trattato con il dovuto rispetto durante il porta-a-porta. Dovetti premere il telefono contro l'orecchio per sentire quello che diceva. «Detective Ryan, sono Rosalind… mi dispiace disturbarla, ma pensa di avere un po' di tempo per venire a parlare con Jessica?»

Rumori di città in sottofondo: automobili, conversazioni a voce alta, il bip frenetico di un segnale pedonale. «Certamente» risposi. «Dove siete?»

«Siamo a Dublino. Possiamo incontrarci al bar del Central Hotel fra, diciamo, dieci minuti? Jessica ha qualcosa da dirle.»

Cercai il fascicolo principale e iniziai a scorrerlo velocemente per controllare la data di nascita di Rosalind: se dovevo parlare con Jessica, avevo bisogno che fosse presente un "adulto competente". «I vostri genitori sono con voi?»

«No, io… no. Penso che Jessica si sentirebbe più a suo agio a parlare senza di loro, se per lei va bene.»

Mi si drizzarono le antenne. Avevo trovato la pagina con i dati della famiglia: Rosalind aveva diciotto anni, quindi per quanto mi riguardava era "competente". «Nessun problema» dissi. «Ci vediamo là.»

«Grazie, detective Ryan, sapevo di potere contare su di lei. Mi dispiace farle fretta, ma noi… noi dobbiamo tornare a casa prima…» Un bip e la comunicazione cessò: aveva esaurito la batteria o il credito. Lasciai un biglietto per Cassie, "Torno presto", e uscii.

Rosalind aveva gusto. Il bar del Central si ostinava a mantenere un'atmosfera vecchio stile: le modanature del soffitto, le ampie e comode poltrone che occupavano, e sprecavano, un sacco di spazio, gli scaffali con strani vecchi libri dalla rilegatura elegante: tutto esibiva un soddisfacente contrasto con la confusione incredibile della strada su cui si affacciava. A volte ci andavo, il sabato, bevevo un bicchierino di brandy e mi gustavo un sigaro, prima che fosse introdotto il divieto di fumare, e trascorrevo il pomeriggio a leggere l'"Almanacco dell'Agricoltore" del 1938 o poesie vittoriane di terz'ordine.

Rosalind e Jessica sedevano a un tavolo vicino alla finestra. Rosalind, con i morbidi riccioli raccolti, era vestita di bianco, con una gonna lunga e una camicetta di garza dall'aria stropicciata, intonata all'ambiente. Sembrava appena arrivata da un party in giardino dell'epoca di re Edoardo. Era china a sussurrare qualcosa all'orecchio di Jessica e con una mano, lentamente, le accarezzava i capelli.

Jessica stava seduta in poltrona con le gambe piegate sotto di sé. Mi colpì di nuovo quasi come la prima volta. Il sole che entrava dai grandi vetri la comprendeva in una colonna di luce trasformandola in un'altra, radiosa visione, una visione vivida, appassionata e perduta. La bella V formata dalle sue sopracciglia, l'inclinazione del naso, la curva piena e infantile delle labbra: l'ultima volta che avevo guardato quel viso, era spento e ricoperto di sangue, e giaceva sul tavolo di acciaio di Cooper. Ora la vedevo come una sospensione, una Euridice restituita dall'oscurità a Orfeo per un breve, prezioso momento. Con un'intensità da togliermi il fiato, avrei voluto posare una mano sulla sua testa morbida, stringerla forte a me e sentirla piccola, calda e viva; proteggerla, come se così facendo avessi potuto in qualche modo cambiare il tempo e proteggere anche Katy.

«Rosalind, Jessica» le salutai.

Quest'ultima si tirò indietro e sgranò gli occhi. L'illusione sparì. Stringeva qualcosa, una bustina di zucchero presa dal contenitore in mezzo al tavolo. Si portò l'angolo alla bocca e iniziò a succhiarlo.

Il viso di Rosalind si illuminò. «Detective Ryan! Che piacere vederla. So di averglielo chiesto con poco anticipo, ma… oh, si sieda, si sieda…» Avvicinai un'altra poltrona. «Jessica ha visto qualcosa che penso lei debba sapere. Vero, cucciola?»

Jessica si strinse nelle spalle con una strana contorsione.

«Ciao, Jessica» dissi con la voce più bassa e più calma che mi fu possibile. La mia mente stava andando in molte direzioni, contemporaneamente: se questo aveva qualcosa a che fare con i genitori allora avrei dovuto trovare un posto per le ragazze, e per Jessica sarebbe stato terribile sul banco dei testimoni. «Mi fa piacere che abbiate deciso di dirmelo. Che cosa hai visto?»

Le sue labbra si schiusero. Si dondolò un po' nella poltrona. Poi scosse la testa.

«Oh, santo cielo… immaginavo che sarebbe potuto accadere.» Rosalind sospirò. «Bene. Mi ha detto che ha visto Katy…»

«Grazie, Rosalind» la interruppi, «ma devo assolutamente sentirlo da Jessica. Una dichiarazione "per sentito dire" non è ammessa in tribunale.»

Colta alla sprovvista, Rosalind mi lanciò uno sguardo assente. Alla fine annuì. «Be'» disse, «se questo è ciò di cui ha bisogno, spero… spero soltanto…» Si chinò su Jessica e, sorridendole, cercò di attirare il suo sguardo. Le mise i capelli dietro l'orecchio. «Jessica? Piccola? Devi dire al detective Ryan quello di cui abbiamo parlato, tesoro. È importante.»

Jessica spostò la testa. «Non ricordo» sussurrò.

Il sorriso di Rosalind si spense. «Avanti, Jessica. Te lo ricordavi bene prima di venire fin qua e di distogliere il detective Ryan dal suo lavoro, no?»

Jessica scosse di nuovo la testa e mordicchiò la bustina di zucchero. Le tremava il labbro.

«Va tutto bene» dissi. Avrei voluto scuoterla. «È solo un po' nervosa. Ha passato dei momenti difficili. Vero, Jessica?»

«Entrambe abbiamo passato dei momenti difficili» precisò Rosalind, tagliente, «ma una di noi deve comportarsi da adulta e non da bambina stupida.» Jessica divenne ancora più piccola nel suo maglione già troppo grande.