I ragazzi della sezione Reati informatici mi chiamarono una mattina presto: avevano finito di setacciare il computer del nostro ultimo candidato per la parte dell'Ombra con la Tuta Sportiva e confermarono che in effetti era on-line quando Katy era morta. Aggiunsero, con una certa dose di soddisfazione professionale che, anche se il povero bastardo divideva casa e computer con i genitori e la moglie, e-mail e post ai forum di discussione mostravano che i membri della famiglia cadevano in errori di spelling e di punteggiatura che erano caratteristici di ognuno; i post scritti mentre Katy stava morendo corrispondevano perfettamente a quelli del sospettato.
«Porco cane» imprecai riattaccando e prendendomi il viso fra le mani. Avevamo già il video della security del tipo del treno notturno che, al Supermac, intingeva le patatine nella salsa barbecue con la concentrazione glaciale dell'ubriaco che più ubriaco non si può. In fondo, una parte di me se lo aspettava, ma mi sentivo sfasato: niente sonno, poco caffè, un fastidioso mal di testa, ed era decisamente ancora troppo mattina per scoprire che la mia unica pista era svanita.
«Cosa c'è?» chiese Cassie sollevando lo sguardo dalle carte sparpagliate sulla sua scrivania.
«L'alibi del tipo con la Kawasaki è stato confermato. Se quello che Jessica ha visto è il nostro uomo, non è uno di Knocknaree, e non ho idea di dove andare a cercarlo. Sono di nuovo al punto di partenza.»
Cassie appoggiò le sue carte e si sfregò gli occhi. «Rob, quello che cerchiamo noi è uno del posto. Tutto ci porta in quella direzione.»
«E allora chi cazzo è Ombra con la Tuta? Se ha un alibi per l'omicidio e ha parlato con Katy anche solo una volta, perché non ce lo viene a dire?»
«Ipotizzando che esista veramente» disse Cassie, guardandomi di traverso.
Fui attraversato da uno scatto d'ira spropositato, quasi incontrollabile. «Scusa, Maddox, ma di cosa cazzo stai parlando? Stai dicendo che Jessica si è inventata tutto, così, solo per farci una risata? Le hai a malapena viste, quelle ragazze. Hai una minima idea di come siano distrutte?»
«Sto solo dicendo» rispose freddamente Cassie, con le sopracciglia inarcate, «che ci sono le circostanze per cui le ragazze potrebbero ritenere di avere un buon motivo per inventarsi una storia simile.»
Mezzo secondo prima di perdere completamente il controllo, afferrai il concetto. «Merda» sbottai. «I genitori.»
«Alleluia. Segni di vita intelligente.»
«Scusa» dissi. «Scusami per averti aggredito, Cass. I genitori… merda. Se Jessica pensa che sia stato uno dei suoi genitori e si è inventata tutta questa cosa…»
«Jessica? Pensi che potrebbe inventarsi una storia come questa? Parla a malapena.»
«Okay, allora Rosalind. Si inventa l'Ombra con la Tuta Sportiva per spostare l'attenzione dai genitori e insegna la storiella a Jessica. Quello che ci ha detto Damien è solo una coincidenza. Ma se lo ha fatto veramente, Cass… se ha davvero inventato tutta questa storia, deve sapere qualcosa di decisivo, cazzo. Lei o Jessica devono aver visto o sentito qualcosa.»
«Quel martedì…» Cassie si bloccò, ma il pensiero passò comunque fra di noi, troppo gotico e orribile per dargli voce. Quel martedì, il corpo di Katy doveva essere rimasto da qualche parte.
«Devo parlare con Rosalind» dissi e mi lanciai sul telefono.
«Rob, non rincorrerla. La farai allontanare. Lascia che sia lei a venire da te.»
Aveva ragione. Puoi picchiarli, i bambini, stuprarli, abusarne in migliaia di modi: non tradiranno mai i genitori chiedendo aiuto. Se Rosalind stava coprendo Jonathan o Margaret, o entrambi, le sarebbe crollato il mondo addosso se avesse detto la verità. Quel momento doveva arrivare con i suoi tempi. Se avessi provato a forzarla, l'avrei persa. Riagganciai la cornetta.
Ma Rosalind non chiamò. Dopo un giorno o due non riuscii più a dominarmi e la chiamai io sul cellulare: per diverse ragioni, alcune più articolate e problematiche di altre, non volli farlo sulla linea fissa. Non mi rispose. Lasciai dei messaggi, ma non richiamò.
Un grigio e squallido pomeriggio, io e Cassie andammo a Knocknaree per vedere se i Savage o Alicia Rowan avevano qualcosa di nuovo da dirci. Era il giorno dopo che avevamo parlato con Carl dei pazzi che popolavano Internet e pativamo tutti e due i postumi di una brutta sbornia. Non ci dicemmo granché in macchina. Cassie guidava, io guardavo fuori dal finestrino le foglie mosse da un vento traditore che arrivava a folate. Spruzzi di una pioggerella sottile bagnavano il parabrezza. Nessuno di noi era certo del fatto che io dovessi andare dove stavamo andando.
All'ultimo momento, quando avevamo già svoltato nella mia vecchia via e Cassie stava parcheggiando l'auto, decisi di rinunciare. Non volevo più andare a casa di Peter, e non perché la strada mi avesse all'improvviso sommerso di ricordi o roba del genere. Anzi, era esattamente il contrario. Vedevo quella strada come qualsiasi altra del quartiere, e proprio questo mi faceva sentire sbilanciato e in una posizione di svantaggio, come se Knocknaree mi avesse di nuovo battuto uno a zero. Avevo trascorso una quantità di tempo incredibile a casa di Peter e per un qualche oscuro motivo sentivo che la sua famiglia avrebbe potuto riconoscermi più facilmente se non fossi stato io a riconoscere loro per primo.
Dall'auto, osservai Cassie avvicinarsi alla porta di Peter e suonare il campanello. Una figura spettrale la fece accomodare. Poi scesi e mi avviai lungo la strada verso la mia vecchia casa. L'indirizzo, 11 di Knocknaree Way, Knocknaree, Contea di Dublino, mi tornò in mente nel modo automatico in cui si recita una cosa imparata a memoria.
Era più piccola di quanto ricordassi, più stretta. Il giardino era un quadrato minuscolo, non era più quello immenso e pieno di verde che avevo in mente. Era stata riverniciata non molto tempo prima di un allegro giallo con rifiniture bianche. Vicino al muro, alti cespugli di rose rosse e bianche stavano perdendo gli ultimi petali. Mi chiesi se fosse stato mio padre a piantarle. Rivolsi lo sguardo verso la finestra della mia camera e in quel momento il meccanismo si sbloccò: ora la sentivo casa mia, ci ero vissuto. Nelle mattine di scuola, ero corso fuori da quella porta con la cartella piena di libri, mi ero affacciato da quella finestra per chiamare Peter e Jamie, avevo imparato a camminare in quel giardino, ero andato in bicicletta su e giù proprio in quella strada, fino al momento in cui avevamo scavalcato il muro ed eravamo corsi nel bosco.
Nel vialetto, c'era una piccola Polo color argento, pulitissima, e un bambino biondo, di tre o quattro anni, stava pedalando attorno alla macchina seduto in un camion dei pompieri di plastica, imitando il suono della sirena. Quando arrivai al cancello, si fermò e mi rivolse una lunga occhiata solenne.
«Ciao» dissi.
«Va' via» mi apostrofò lui, dopo un po', in tono deciso.
Non seppi cosa rispondergli, ma per fortuna non ce ne fu bisogno: la porta d'ingresso si aprì e la madre del bambino, una donna sulla trentina, anche lei bionda, di un carino standard, accorse nel vialetto e posò una mano protettiva sulla sua testa. «Desidera?» mi chiese.
«Detective Robert Ryan» mi presentai, cercando il distintivo nella tasca. «Stiamo indagando sulla morte di Katharine Devlin.»
Prese il documento e lo osservò attentamente. «Non so come potrei aiutarla» rispose, restituendomelo. «Abbiamo già parlato con gli altri detective. Non abbiamo visto niente. I Devlin li conosciamo appena.»