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No. Queste sono storie alle quali mi piace pensare, sono piccole monete brillanti e non senza valore. Ma, soprattutto, ogni giorno e qualunque cosa facessimo, era la mia collega. Non so spiegarvi cosa questa parola, perfino ora, mi faccia sentire, cosa significhi. Potrei raccontarvi di quando andavamo di stanza in stanza, con la pistola spianata davanti a noi, tenuta con entrambe le mani, in case silenziose dove ci era stato segnalato un sospetto armato, di quando aspettavamo dietro a ogni porta, o delle lunghe notti di sorveglianza, seduti in macchine scure a bere caffè nero da un thermos o a tentare di giocare a carte alla luce dei lampioni. Una volta inseguimmo a cento all'ora due ladri d'auto nel loro territorio, una zona abbandonata piena di graffiti e con aree adibite a discariche. Spingevo sull'acceleratore senza guardare il tachimetro. L'auto che inseguivamo andò a schiantarsi contro un muro e l'autista, un quindicenne, ci morì tra le braccia mentre cercavamo di tranquillizzarlo promettendogli la mamma e l'ambulanza. In un condominio che avrebbe stravolto la vostra immagine di umanità se l'aveste visto, un tossicomane mi minacciò con una siringa. Non era nemmeno lui che stavamo cercando ma suo fratello, e il nostro diverbio stava incanalandosi lungo le linee di una conversazione normale quando lui mosse la mano troppo in fretta e all'improvviso mi ritrovai con un ago puntato alla gola. Mentre me ne stavo lì immobile e sudato, pregando che a nessuno di noi venisse da starnutire, Cassie si sedette a gambe incrociate sulla moquette maleodorante, offrì una sigaretta al tizio e gli parlò per un'ora e venti minuti, durante i quali il nostro interlocutore ci richiese, nell'ordine, i portafogli, un'auto, una dose, una Sprite e di essere lasciato solo. Cassie gli parlò in modo così concreto e con un interesse così sincero che alla fine lui lasciò cadere la siringa e scivolò lungo il muro per sedersi accanto a lei. Stava per cominciare a raccontarle la storia della sua vita quando, recuperato il controllo, riuscii a mettergli le manette.

Le ragazze che sogno sono quelle gentili, quelle che guardano dalla finestra con un'aria un po' malinconica o che cantano vecchie e dolci canzoni al piano, con i lunghi capelli che ondeggiano, tenere come un melo in fiore. Una ragazza che scende in guerra con te e che ti copre le spalle è una cosa diversa, una cosa che ti fa tremare. Pensate alla prima volta in cui siete stati a letto con qualcuno, o alla prima volta che vi siete innamorati: a quell'esplosione accecante che vi ha lasciati elettrici fino alla punta delle dita, iniziati e trasformati. Ebbene, vi dico che non è nulla, assolutamente nulla, in confronto a ciò che si instaura quando, ogni giorno, l'uno mette semplicemente la propria vita nelle mani dell'altro.

7

La domenica di quel weekend pranzai con i miei. Ci vado, di tanto in tanto, anche se non so bene perché. Non siamo molto uniti, il meglio che riusciamo a fare è mantenere uno stato di reciproca e amichevole cortesia, come persone che si incontrano durante una vacanza e non sanno come concludere la conoscenza. A volte porto Cassie con me. I miei genitori la adorano. Lei scherza con mio padre sul giardinaggio e, spesso, quando aiuta mia madre in cucina, la sento ridere, felice come una bambina. I miei genitori fanno continue allusioni speranzose su quanto ci vedono uniti, ma noi le ignoriamo allegramente.

«Dov'è, oggi, Cassie?» mi chiese mia madre, dopo pranzo. Aveva cucinato la pasta con il formaggio. Pensa sempre che sia la mia pietanza preferita, e magari lo è pure stata in un certo momento della mia vita. La prepara come timida espressione di solidarietà, quando qualcosa sui giornali le fa capire che un mio caso non sta andando bene. Persino l'odore di quel piatto mi rende claustrofobico e mi fa venire l'orticaria. Eravamo in cucina, io stavo lavando i piatti e lei li asciugava. Mio padre era in salotto, stava guardando un film di Colombo alla TV. Avevamo acceso la luce anche se era solo metà pomeriggio.

«Penso che sia andata dai suoi zii» risposi. In realtà, forse in quel momento Cassie era sdraiata sul divano a leggere e mangiare gelato dalla vaschetta. Non avevamo avuto molto tempo per noi nelle ultime due settimane, e lei a volte sente il bisogno di una certa dose di solitudine, proprio come me. Ma se le avessi detto che Cassie stava trascorrendo la domenica da sola mia madre ne sarebbe rimasta turbata.

«Le attenzioni degli zii le faranno sicuramente bene. Dovete essere a pezzi, voi due.»

«Sì, siamo abbastanza stanchi» concordai.

«Tutto quel viavai da Knocknaree.»

I miei genitori e io non parliamo mai del mio lavoro, tranne che in termini molto generici, e non nominiamo mai Knocknaree. Sollevai di scatto la testa, ma mia madre stava osservando un piatto in controluce alla ricerca di aloni di bagnato.

«È un viaggio lungo, è vero» commentai.

«Ho letto sul giornale» continuò mia madre, «che la polizia ha parlato di nuovo con le famiglie di Peter e Jamie. Ci siete andati tu e Cassie?»

«Non dai Savage. Però ho parlato con la signora Rowan, sì. Questo ti sembra pulito?»

«Va benissimo.» Mi prese il piatto da forno dalle mani. «Come sta Alicia?»

Qualcosa nella sua voce mi fece sollevare di nuovo lo sguardo, sorpreso. Vide che la stavo osservando e, scostandosi i capelli dalla guancia con il dorso del polso, arrossì. «Ah, eravamo buone amiche. Alicia era… be', possiamo dire che era come una piccola sorella per me. Poi ci siamo perse di vista. Mi stavo solo chiedendo se sta bene, tutto qui.»

Fui assalito da un'improvvisa ondata di panico: se avessi saputo che Alicia Rowan e mia madre erano buone amiche, non mi sarei mai avvicinato a quella casa. «Penso che stia bene» risposi. «Date le circostanze, voglio dire. Tiene ancora la camera di Jamie come lei l'ha lasciata.»

Mia madre fece schioccare la lingua con tristezza. Lavammo e asciugammo piatti per un po', in silenzio. Si udivano soltanto il rumore delle posate e la voce di Peter Falk che interrogava qualcuno, nella stanza accanto. Fuori dalla finestra, un paio di gazze atterrarono sull'erba e cominciarono a battibeccare fra di loro con suoni rauchi.

«Quando sono due portano gioia» osservò mia madre, riferendosi alla famosa filastrocca secondo la quale una gazza porta sfortuna e due sono di buon auspicio. Sospirò. «Non me lo sono mai perdonato… di aver perso i contatti con Alicia. Lei non aveva nessun altro. Era una ragazza così dolce e innocente. Sperava ancora che il padre di Jamie avrebbe lasciato la moglie, dopo tutto quel tempo, e che sarebbero stati una famiglia… Si è mai sposata?»

«No, ma non mi è sembrata infelice. Davvero. Insegna yoga.» L'acqua nel lavello era diventata tiepida e unticcia. Presi il bollitore e aggiunsi altra acqua calda.

«È uno dei motivi per cui ci siamo trasferiti, sai?» disse mia madre. Mi voltava le spalle e stava dividendo le posate nel cassetto. «Non riuscivo a guardarli in faccia, Alicia, Angela e Joseph. Io avevo riavuto mio figlio sano e salvo e loro stavano attraversando l'inferno… Non volevo neppure uscire di casa per non rischiare di incontrarli. Ti sembrerà sciocco, ma mi sentivo colpevole. Pensavo che mi odiassero per averti riavuto tutto intero. Non so come potessero evitarlo.»

Quella rivelazione mi colse di sorpresa. Tutti i bambini sono egocentrici, e io non avevo mai pensato che ci fossimo trasferiti a beneficio di qualcun altro e non esclusivamente mio. «Non l'avevo mai considerata da questo punto di vista» ammisi. «Bel moccioso egoista.»