Ero frastornato. Non mi era mai successo niente del genere. Penso di poter dire, senza vantarmi e per ironia della sorte, che ho sempre avuto una memoria molto buona, quel tipo di memoria a pappagallo che può assorbire e rigurgitare grandi quantità di informazioni senza molto sforzo e senza il bisogno di comprenderle. Era così che avevo superato gli esami di maturità ed era anche quello il motivo per cui non mi ero preoccupato più di tanto quando mi ero accorto di non avere con me gli appunti: mi era già successo in passato, una volta o due, di essermi dimenticato di rivederli, e non se ne era mai accorto nessuno.
E non si trattava nemmeno di fare qualcosa fuori dell'ordinario, dopotutto. Alla Omicidi ci si abitua a districarsi fra tre o quattro indagini alla volta. Se ti viene assegnato il caso di un bambino assassinato, o di un poliziotto, o qualcosa di priorità equivalente, puoi passare a un collega gli altri casi aperti, come avevamo fatto con quello del posteggio dei taxi, rifilato a Quigley e McCann, ma ti rimangono le incombenze dei casi chiusi: il lavoro d'ufficio, gli incontri con gli avvocati, i tribunali. Piano piano sviluppi la capacità di archiviare in una zona della tua memoria tutti i particolari principali e di tirarli fuori in qualunque momento, in caso di bisogno. Anche il caso Kavanagh avrebbe dovuto essere lì, ma non c'era, e questo mi mandava nel panico, un panico silenzioso e ferino.
Verso le due del mattino mi convinsi che se fossi riuscito a farmi una bella dormita avrei trovato tutto in ordine il mattino dopo. Mi feci un altro bicchierino di vodka e spensi la luce, ma ogni volta che chiudevo gli occhi le immagini mi sfrecciavano nella mente in una frenetica e inarrestabile processione: il Sacro Cuore, i due criminali sudici, la ferita alla testa, l'orrendo B &B… Verso le quattro, mi arresi all'evidenza: ero stato un cretino a non andare a prendere gli appunti. Accesi la luce e cercai i vestiti, ma mentre mi allacciavo le scarpe mi accorsi che mi tremavano le mani, mi ricordai della vodka (nella condizione in cui mi trovavo, non avrei superato il test del palloncino) e capii che ero troppo intontito dall'alcol perché, anche se li avessi avuti, gli appunti potessero offrire un aiuto.
Tornai a letto e rimasi a guardare per un altro po' il soffitto. Heather e il tipo nell'appartamento a fianco russavano all'unisono. Di tanto in tanto una macchina passava in strada inondando di luce gialla le pareti della stanza. Dopo un po' mi ricordai delle pastiglie per il mal di testa e, basandomi sul fatto che mi mettevano sempre fuori combattimento e senza considerare che forse era lo stesso mal di testa a farmi quell'effetto, ne presi un paio. Alla fine, erano quasi le sette, mi addormentai. Qualche istante prima che squillasse la sveglia.
Quando suonai il clacson davanti a casa di Cassie, lei uscì nella sua unica tenuta elegante: un completo Chanel giacca e pantaloni, molto chic, nero foderato di rosa, e gli orecchini di perle di sua nonna. Saltò in auto con quello che considerai un inutile spreco di energia, anche se probabilmente aveva solo cercato di prendersi la minore quantità possibile di pioggia. «Ciao» mi salutò. Era truccata e questo la faceva sembrare più vecchia e sofisticata, distante. «Non hai dormito?»
«Non molto. Hai gli appunti?»
«Sì. Gli darai un'occhiata mentre… un momento, ma chi entra per primo, io o tu?»
«Non me lo ricordo. Puoi guidare tu? Devo rivedere alcune cose.»
«Non sono assicurata per questo aggeggio» rispose, guardando la Land Rover con sdegno.
«Allora cerca di non investire nessuno.» Con movimenti scoordinati, scesi dalla macchina e le girai intorno per risalire dall'altra parte, con la pioggia che schizzava sulla mia testa, mentre Cassie, con un'alzata di spalle, si spostava al posto di guida. Ha una bella calligrafia, dall'aria un po' straniera, in un certo senso, ma sicura e chiara, e ci sono abituato, ma ero così stanco e con i postumi della sbornia ancora lì che riuscivo a vedere solo degli scarabocchi indecifrabili che si muovevano in continuazione sulla pagina come un bizzarro test di Rorschach. Pochi minuti dopo mi addormentai, con la testa che sussultava contro il finestrino.
Ovviamente, toccò a me entrare per primo. Non ho il coraggio di descrivere i mille modi in cui mi resi ridicolo: balbettai, confusi i nomi, sbagliai l'ordine temporale degli eventi e dovetti tornare indietro e correggermi diligentemente fin dall'inizio. L'avvocato dell'accusa, MacSharry, parve dapprima stupito (ci conoscevamo, e di solito vado bene alla sbarra), poi si allarmò e infine, pur mantenendo un'apparenza di cortesia, s'infuriò. Aveva l'ingrandimento di una foto del corpo di Philomena Kavanagh – è un trucchetto che serve a far inorridire la giuria e a farle sentire il bisogno di punire qualcuno; ero un po' sorpreso che il giudice gli avesse permesso di portarla – e in teoria avrei dovuto indicare ogni ferita e metterla in relazione con quanto i presunti assassini avevano ammesso nelle loro confessioni (sembrava che avessero effettivamente confessato), ma per qualche motivo fu la goccia che fece traboccare il vaso e svanire quel minimo di compostezza che mi era rimasto: ogni volta che sollevavo lo sguardo la vedevo, pesante e malmenata, con la gonna sollevata intorno alla vita e la bocca aperta in un impotente grido di rimprovero rivolto a me per averla delusa.
L'aula del tribunale era diventata una sauna, con i vapori dei cappotti umidi che andavano ad annebbiare le finestre. La testa mi prudeva per il caldo e sentivo gocce di sudore che mi scendevano lungo le costole. Quando l'avvocato della difesa ebbe finito il controinterrogatorio, aveva una gioia incredula, quasi indecente, negli occhi; sembrava un ragazzo che fosse riuscito a infilarsi nelle mutandine di una ragazza mentre aveva sperato al massimo di ricevere solo un bacio. Perfino i membri della giuria, che si agitavano e si lanciavano occhiate di nascosto, parvero imbarazzati per me.
Scesi dal banco che tremavo tutto, con le gambe che sembravano di gelatina. Pensai per un secondo di dovermi aggrappare a una balaustra per restare in piedi. Si può rimanere a guardare il processo dopo aver concluso la propria testimonianza, e Cassie si sarebbe sorpresa di non vedermi, ma proprio non ce la facevo. Non aveva bisogno di supporto morale, lei: se la sarebbe cavata benissimo e, potrà sembrare infantile, la cosa mi faceva sentire anche peggio. Sapevo che il caso Devlin la preoccupava e preoccupava anche Sam, ma sembrava che entrambi riuscissero a mantenere il controllo senza neanche troppa fatica. Io ero l'unico che sussultava, farfugliava, si spaventava delle ombre come un personaggio di Qualcuno volò sul nido del cuculo. Non pensavo di poter sopportare di sedere in tribunale a guardare Cassie che, ignara di quanto era successo, risistemava con estrema praticità lo sfacelo in cui avevo trasformato un lavoro di diversi mesi.
Stava ancora piovendo. Trovai un piccolo pub senza molte pretese in una via laterale: c'erano tre tizi a un tavolo d'angolo. Al primo sguardo, mi individuarono come poliziotto e cambiarono immediatamente discorso. Ordinai un whisky caldo e mi sedetti. Il barista mi sbatté il bicchiere davanti e tornò alle pagine dei cavalli senza neanche chiedermi se volevo il resto. Ne bevvi un lungo sorso e, con la bocca che mi bruciava, rovesciai la testa all'indietro e chiusi gli occhi.