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I tre individui all'angolo ora stavano parlando della ex ragazza di qualcuno. «Allora le faccio: "Non c'è nel decreto del mantenimento che devi vestirlo come quel cazzo di Diddy. Se vuoi che si metta le Nike, te le compri da sola, stronza".»

«Hai ragione, cazzo» ribadì uno degli altri.

«Ma poi che razza di nome è Diddy… tetta… per un adulto?» chiese il terzo con aria disgustata. «Qualcuno dovrebbe dirglielo.»

«Laggiù non ha lo stesso significato, idiota.» Stavano mangiando sandwich e quell'odore salato, chimico, mi fece venire il voltastomaco. Fuori pioveva a catinelle, e l'acqua sgorgava a fiumi da una grondaia.

Per quanto strano possa apparire, sul banco dei testimoni, sotto lo sguardo atterrito di MacSharry, avevo capito che stavo crollando. Mi ero già accorto che dormivo meno del solito e che bevevo troppo, che ero nervoso e distratto e che forse avevo delle visioni, ma non c'era ancora stato niente che mi fosse sembrato particolarmente inquietante o allarmante di per sé. Ora la cosa era evidente e mi spaventava a morte.

Tutto il mio essere gridava di andarmene il più lontano possibile da quel maledetto caso. Avevo ancora molti giorni di ferie arretrate, perciò chi avrebbe potuto impedirmi di usare un po' dei miei risparmi per prendermi un appartamentino in affitto a Parigi o a Firenze, per qualche settimana, e passeggiare e trascorrere tutto il giorno ad ascoltare tranquillamente una lingua che non capivo e non tornare fino a quando tutta quella storia non fosse finita? Ma sapevo che la cosa era tristemente impossibile. Era troppo tardi per uscire dall'indagine. Come avrei fatto a dire a O'Kelly che, dopo settimane che mi occupavo del caso, avevo capito all'improvviso che in realtà Adam Ryan ero io? Un'altra scusa avrebbe significato che avevo ormai perso l'autocontrollo, e questo avrebbe posto fine alla mia carriera. Sapevo che dovevo assolutamente scuotermi prima che gli altri cominciassero ad accorgersi che stavo crollando e prima che degli omini col camice bianco venissero a portarmi via, ma non riuscivo a pensare a una sola cosa che potesse farmi stare anche solo un po' meglio.

Finii il whisky e ne ordinai un altro. Il barista selezionò un canale TV che stava mandando in onda una partita di biliardo. Il mormorio discreto del commentatore si fondeva in modo confortevole con il rumore della pioggia. I tre tizi se ne andarono sbattendo la porta; continuai a sentire le loro risate anche dalla strada. All'improvviso il barista mi portò via il bicchiere in modo piuttosto sgarbato: evidentemente voleva che me ne andassi.

Raggiunsi il bagno e mi lavai il viso con acqua fredda. Guardai la mia immagine nello specchio verdastro e sporco: sembravo uscito da un film di zombie, con la bocca aperta, grosse borse scure sotto gli occhi, i capelli che mi stavano dritti in ciuffi scomposti. "Tutto questo è ridicolo" pensai, in preda a un vertiginoso e distaccato stupore. "Come è potuto succedere? Come cazzo ci sono finito in una situazione così?"

Tornai al parcheggio e mi sedetti in macchina a succhiare caramelle alla menta e a guardare le persone che si affrettavano in strada a testa bassa, stringendosi nei cappotti. Passò una donna con un sacchetto di plastica del supermercato sulla testa. Era buio come se fosse sera: le mezze luci delle auto illuminavano la pioggia che scendeva di traverso, i lampioni in strada erano già accesi. Un SMS di Cassie: "Che è successo? Dove sei?". Le risposi: "In auto" e mi allungai per lampeggiare con i fari e farmi individuare. Quando mi vide seduto al posto del passeggero, tornò indietro e corse dall'altra parte.

«Accidenti» esclamò, infilandosi dietro il volante e scuotendosi la pioggia dai capelli. Una goccia sulle ciglia le aveva sciolto il mascara e una lacrima nera le stava scendendo lungo la guancia, facendola assomigliare a un piccolo Pierrot. «Avevo dimenticato che teste di cazzo erano quei due piccoli delinquenti. Quando ho raccontato che avevano pisciato sul letto della donna, hanno cominciato a ridacchiare. Il loro avvocato gli ha dovuto dare un calcio negli stinchi, sotto il tavolo, per farli smettere. Cosa ti è successo? Perché devo guidare io?»

«Ho mal di testa» le risposi. Non mi capita molto spesso, e prendendo una pastiglia di solito in un paio d'ore mi passa, ma di tanto in tanto me ne viene uno che mi fa stare a letto per due o tre giorni. Non riesco a muovermi e il mondo si riduce a una capsula di lampi di luce, nausea e dolore pulsante. Cassie stava armeggiando con lo specchietto del frangisole per controllarsi il trucco e i suoi occhi preoccupati incontrarono i miei. La sua mano restò ferma a mezz'aria. «Mi sa che ho fatto un casino, Cass.»

Lo avrebbe scoperto comunque. MacSharry si sarebbe affrettato a chiamare O'Kelly ed entro la fine della giornata tutta la squadra lo avrebbe saputo. Ero così stanco. Per un momento, mi lasciai andare alla speranza che quello fosse soltanto un incubo indotto dalla vodka e che presto mi sarei svegliato per recarmi in tribunale.

«Molto male?» mi chiese.

«Mi sa che ho proprio mandato tutto a puttane. Non riuscivo neanche a vedere bene, figurati se riuscivo a pensare chiaramente.» Dopotutto, stavo dicendo la verità.

Lentamente, orientò lo specchietto, si inumidì un dito e si pulì la scia nera. «Intendevo il mal di testa. Vuoi andare a casa?»

Pensai con bramosia al mio letto, a ore di sonno indisturbato prima che Heather tornasse a casa e volesse sapere della sua candeggina, ma l'attrattiva scemò presto: sarei rimasto a giacere rigido, con le mani strette alle lenzuola, a ripercorrere all'infinito quanto era successo. «No. Ho preso una pastiglia quando sono uscito dal tribunale. Ne ho passate di peggio.»

«Devo cercare una farmacia o ne hai altre, nel caso?»

«Ne ho molte altre, comunque sto già meglio. Andiamo.» Fui tentato di fornirle ulteriori dettagli sul mio mal di testa immaginario, ma l'arte stessa del mentire sta nel sapere quando fermarsi, e io sono sempre stato piuttosto bravo in questo. Non so neppure adesso se Cassie mi credette. Uscì dal parcheggio con una sterzata veloce e improvvisa, con la pioggia che scivolava via dai tergicristalli, e si immise nel traffico.

«Tu come sei andata?» le chiesi a un tratto, mentre avanzavamo a passo di lumaca lungo le banchine.

«Okay. Credo che il loro avvocato stia cercando di provare che sono stati obbligati a confessare, ma la giuria non ci cascherà.»

«Bene» fu il mio laconico commento.

Il telefono cominciò a suonare, isterico, quasi nello stesso momento in cui mettemmo piede nella sala operativa. MacSharry non aveva di certo perso tempo, perché era O'Kelly che mi diceva di andare nel suo ufficio. Gli raccontai la storia dell'emicrania. L'unica cosa positiva del mal di testa è che, come scusa, è fantastica: il mal di testa è invalidante, non ti viene per colpa tua, può durare tutto il tempo che vuoi e nessuno può dimostrare che non ce l'hai. E, inoltre, avevo davvero l'aspetto di uno che non stava bene. O'Kelly fece alcuni commenti derisori sulla patologia, sostenendo che erano "stronzate da femminucce", ma recuperai parte del suo rispetto insistendo col voler restare al lavoro.

Tornai in sala operativa. Sam stava rientrando da uno dei suoi giri, fradicio di pioggia, e il suo cappotto di tweed puzzava leggermente di pelo di cane bagnato. «Com'è andata?» chiese. Il tono era casuale, ma mi lanciò un'occhiata da sopra la spalla di Cassie e poi rapidamente distolse lo sguardo: il tamtam si era già fatto sentire.

«Bene. Emicrania» rispose Cassie, indicandomi con un cenno della testa. A quel punto, potere della suggestione, mi parve davvero di avere l'emicrania. Sbattei le palpebre, cercando di mettere a fuoco.

«Il mal di testa è una brutta bestia» commentò Sam. «Mia madre ne soffre, a volte deve stare sdraiata in una stanza buia per giorni, con il ghiaccio sulla fronte. Ce la fai a lavorare?»

«Sto bene» ripetei. «E tu cosa hai fatto?»

Sam guardò verso Cassie. «Sta bene» lo rassicurò lei. «Quel processo farebbe venire il mal di testa a chiunque. Dove sei stato?»