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Inarcai le sopracciglia. «L'hai incontrato solo cinque minuti. Cos'è? Gli fai la diagnosi? A me è sembrato solo un cazzone.»

Lei fece spallucce. «Non sto dicendo che sono certissima su Cathal. Ma se sai dove guardare, sono incredibilmente facili da individuare.»

«Te l'hanno insegnato al Trinity?»

Cassie allungò la mano perché le passassi il mio bicchiere e andasse a riempirlo insieme al suo. «Non esattamente» rispose, dal frigo. «Ho conosciuto uno psicopatico una volta.»

Mi dava la schiena, e se c'era una qualche strana inflessione nella sua voce non la colsi. «In un programma su Discovery Channel dicevano che il cinque per cento della popolazione è costituita da psicopatici» osservai, «ma la maggior parte di loro non infrange la legge e quindi il loro disagio mentale non viene mai diagnosticato. Quanto vuoi scommettere che la metà di quelli al governo…»

«Rob» mi interruppe Cassie. «Stai zitto, per favore. Sto cercando di raccontarti una cosa.»

Questa volta percepii la tensione. Mi si avvicinò e mi passò il bicchiere. Portò il suo alla finestra e si appoggiò al davanzale. «Volevi sapere perché ho lasciato l'università» disse, con molta calma. «Il secondo anno feci amicizia con un tipo con cui andavo a lezione. Era molto conosciuto: belloccio, affascinante, intelligente, insomma interessante. Non era che gli stessi dietro o roba del genere, ma immagino che fossi lusingata dal fatto che mi degnasse di una qualche considerazione. Saltavamo le lezioni e passavamo ore al bar. Mi faceva dei regali, cose da poco, e alcune sembravano anche usate, ma eravamo studenti squattrinati, e poi, è il pensiero che conta, no? Tutti ritenevano che quello che c'era fra noi fosse bellissimo. Che fossimo così amici.»

Bevve un sorso ma lo mandò giù a fatica. «Scoprii molto presto che raccontava un sacco di balle senza un valido motivo. Sapevo che… Be', me l'aveva detto lui che aveva avuto un'infanzia orribile e che a scuola era preso di mira dai suoi compagni, così mi dissi che aveva sviluppato l'abitudine di mentire per proteggersi. Pensavo… Cristo santo, pensavo di poterlo aiutare: se si fosse convinto di avere un'amica su cui poter contare a prescindere da qualsiasi cosa, la sua autostima sarebbe cresciuta e non avrebbe più avuto bisogno di mentire. Avevo solo diciotto, diciannove anni.»

Non osavo muovermi, anche solo per appoggiare il bicchiere. Temevo che anche il più piccolo movimento sarebbe stato quello sbagliato, quello che l'avrebbe fatta scostare dal davanzale e rinunciare ad andare avanti su quell'argomento. La bocca tesa e distorta in una strana smorfia la faceva sembrare molto più vecchia e mi fece capire che quella era una storia che non aveva mai raccontato a nessuno.

«Non mi rendevo nemmeno conto che mi stavo allontanando da tutti gli altri amici che mi ero fatta, ma lui metteva il broncio e si mostrava distante se li frequentavo. A dire il vero, musone e distante lo era spesso, per le ragioni più disparate, e io ci mettevo un tempo infinito a cercare di capire cosa avessi fatto, a chiedere scusa e a metterci una pezza. Quando ci incontravamo non sapevo mai se sarebbe stato tutto abbracci e complimenti o freddezza e sguardi di disapprovazione, non c'era una logica. A volte le cose che faceva… anche piccole cose come prendere in prestito i miei appunti poco prima degli esami, dimenticare di riportarmeli per giorni e sostenere poi di averli persi, salvo indignarsi quando glieli vedevo spuntare dalla borsa… mi mandavano in bestia a tal punto che l'avrei ucciso a mani nude. Ma poi era carino quel tanto che bastava perché non volessi smettere di frequentarlo.» Fece un mezzo sorriso. «Non volevo ferirlo.»

Le occorsero tre tentativi per accendere una sigaretta… La Cassie che mi aveva raccontato di essere stata accoltellata senza sconvolgersi più di tanto… «Comunque» riprese, «la cosa andò avanti per quasi due anni. Nel mese di gennaio del quarto anno ci provò con me, nel mio appartamento. Lo respinsi… Non so perché, a quel punto ero talmente confusa che sapevo a stento quello che facevo, ma grazie a Dio avevo ancora un po' d'istinto a guidarmi. Dissi che volevo restassimo semplicemente amici, lui sembrò d'accordo, parlammo un altro po', poi se ne andò. Il giorno seguente, a lezione, tutti mi guardavano e nessuno voleva parlarmi. Mi ci vollero due settimane per capire cosa era successo. Alla fine bloccai una ragazza con la quale ero stata amica il primo anno, Sarah-Jane, e fu lei a dirmi che lo sapevano tutti quello che gli avevo fatto.»

Aspirò una rapida boccata dalla sigaretta. Mi stava guardando, senza vedermi, in realtà, perché aveva le pupille troppo dilatate. Pensai allo sguardo intontito e narcotizzato di Jessica Devlin. «La sera in cui l'avevo respinto, era andato direttamente all'appartamento di altre ragazze che studiavano con noi. In lacrime. Aveva raccontato che da un po' lui e io uscivamo insieme in gran segreto. Poi però lui aveva deciso che non funzionava e io avevo minacciato che se rompeva con me avrei detto a tutti che mi aveva violentata, sarei andata alla polizia, ai giornali, gli avrei rovinato la vita.» Cercò di scrollare la sigaretta nel posacenere, ma lo mancò completamente.

In quel momento non mi venne in mente di chiedermi perché mi stesse raccontando quella storia, perché solo allora. Potrà sembrare strano, ma quel mese tutto era stato insolito, vagamente precario. Nel preciso istante in cui aveva pronunciato le parole "lo prendiamo noi" Cassie aveva dato l'avvio a un movimento tellurico inarrestabile. Cose familiari mi si aprivano e si rivoltavano sotto gli occhi, il mondo diventava bellissimo e pericoloso come una scintillante lama rotante. Quella storia, Cassie che apriva la porta di una delle sue stanze segrete, sembrava una parte naturale e inevitabile di quel cambiamento epocale. E, in un certo senso, immagino che lo fosse. Solo molto tempo dopo mi sarei reso conto che aveva cercato di dirmi una cosa ben specifica, se solo avessi prestato più attenzione.

«Mio Dio» commentai dopo un po'. «Solo perché gli avevi ammaccato l'ego?»

«Non solo» rispose Cassie. Indossava una morbida maglia color ciliegia. Notai che si alzava e si abbassava velocemente sopra i seni. Anche il mio cuore batteva forte. «Perché era annoiato. Perché, respingendolo, avevo espresso chiaramente che quello era il massimo divertimento che avrebbe ottenuto da me, così come era anche il massimo uso che avrei potuto fare di lui. Perché, se ci pensiamo, era solo divertimento.»

«Lo dicesti a Sarah-Jane quello che era successo?»

«Oh, certo» rispose Cassie con tono neutro. «Lo dissi a tutti quelli che non avevano smesso di parlarmi. Nessuno mi credette. Credettero a lui… i nostri colleghi, le conoscenze che avevamo in comune, in pratica tutti. Gente che in teoria sarebbe dovuta essere mia amica.»

«Oh, Cassie» dissi. Mi stavo trattenendo dall'andare da lei, abbracciarla, tenerla stretta fino a quando quella terribile rigidità non si fosse sciolta, fosse uscita dal suo corpo e lei fosse tornata dal luogo remoto dov'era finita. Ma quell'immobilità, quelle spalle incurvate come per proteggersi… non capivo se le avrebbe fatto piacere o se sarebbe stata la cosa peggiore che potessi fare. Date la colpa al collegio o, se preferite, a un difetto ben radicato del mio carattere. Il fatto è che non sapevo come comportarmi. Col senno di poi, dubito che avrebbe fatto differenza, ma mi fa desiderare ancora di più che avessi saputo cosa fare.

«Tenni duro per un altro paio di settimane» riprese Cassie. Si accese un'altra sigaretta con il mozzicone di quella precedente, cosa che non le avevo mai visto fare. «Era sempre circondato da persone che lo trattavano in maniera protettiva e mi guardavano male. Venivano da me e mi dicevano che era per colpa di donne come me se i veri stupratori la facevano franca. Una ragazza arrivò a dirmi che meritavo di essere stuprata, così avrei capito che cosa orribile avevo fatto.»