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Rise, aspra. «Ironico, vero? Un centinaio di studenti di psicologia e nessuno che avesse riconosciuto il classico psicopatico. Sai la cosa strana? Mi sarebbe piaciuto che avessi fatto tutte le cose che sosteneva lui. Se così fosse stato, avrebbe avuto senso: avrei avuto quello che mi meritavo. Ma non avevo fatto nulla, eppure stava andando come stava andando. Non c'era correlazione di causa-effetto. Temetti di perdere la ragione.»

Mi sporsi in avanti, lentamente, come avrei fatto con un animale spaventato, e le presi una mano. Quel poco almeno riuscii a farlo. Rise, piano, mi strinse le dita e poi le lasciò. «Comunque… alla fine un giorno venne da me, in mensa. Tutte le altre ragazze cercarono di fermarlo, ma lui le respinse, venne coraggiosamente da me e disse ad alta voce, perché potessero sentirlo: "Ti prego, smettila di chiamarmi nel bel mezzo della notte. Ma che cosa ti ho fatto?". Rimasi di stucco. Non riuscivo a capire di cosa stesse parlando. L'unica cosa che mi venne in mente di dire fu: "Ma non ti ho chiamato". Lui sorrise e scosse la testa, come a dire "certo, come no?", poi si piegò verso di me e, con un tono allegro, da discorso d'affari, mi bisbigliò: "Se mai m'infilassi in casa tua e ti violentassi, non credo che le tue accuse reggerebbero, che ne dici?". Mi sorrise di nuovo e tornò dalle sue amiche.»

«Piccola» dissi alla fine, con cautela, «magari è meglio se fai installare un allarme qui. Non voglio spaventarti, ma…»

Cassie scosse la testa. «E poi? Non esco più di casa? Non posso permettermi di diventare paranoica. La serratura funziona bene e tengo la pistola vicino al letto.» L'avevo notato, naturalmente, ma non sono pochi i detective che, non sentendosi al sicuro, hanno un revolver a portata di mano. «E comunque sono abbastanza sicura che non lo farebbe mai. So come gira la sua testa, purtroppo. Si diverte di più a pensare che me ne sto qui tutto il tempo a rodermi nell'attesa piuttosto che fare quello che deve fare e finirla lì.»

Fece l'ultimo tiro dalla sigaretta e si sporse per spegnere il mozzicone. Aveva la schiena così rigida che il movimento parve doloroso. «All'epoca, però, l'intera faccenda mi spaventò eccome, tanto che mollai l'università. Andai in Francia, ho dei cugini a Lione. Rimasi da loro per un anno. Lavorai come cameriera in un bar. Un bel periodo. Fu lì che comprai la Vespa. Poi tornai e feci domanda a Templemore.»

«Per causa sua?»

Si strinse nelle spalle. «Forse. Primo, magari qualcosa di buono è venuto fuori da tutta quella faccenda. Secondo, ora ho degli ottimi sensori per gli psicopatici. È come un'allergia: esposto una volta, rimani sensibilizzato per sempre.» Finì di bere con un lungo sorso. «L'anno scorso mi sono imbattuta in Sarah-Jane, in un pub in città. L'ho salutata, mi ha detto che lui se la cavava bene "nonostante tutti i tuoi sforzi" e se n'è andata.»

«I tuoi incubi riguardano questa cosa?» chiesi con gentilezza, dopo un po'. L'avevo svegliata io da quei sogni, un paio di volte, mentre lavoravamo a casi di omicidio con stupro, ma non aveva mai voluto rivelarmi i dettagli: agitava le braccia in maniera scomposta verso di me, annaspava pronunciando fiumi di parole incomprensibili e piene di angoscia.

«Esatto, sogno che è lui il tizio che dobbiamo prendere, ma non possiamo provarlo e quando scopre che al caso ci lavoro io… be', fa quello che deve fare.»

Diedi per scontato, all'epoca, che sognasse quell'uomo mentre metteva in atto la sua minaccia. Ora penso che mi sbagliassi, e credo che possa essere stato, anche se ne ho molti tra cui scegliere, il mio più grande errore.

«Come si chiamava?» chiesi. Volevo disperatamente fare qualcosa, risolvere quella situazione in qualche modo, magari fare un controllo generico sul tipo e cercare qualche motivo per arrestarlo. Era l'unica azione che mi veniva in mente. E immagino che una piccola parte di me, per crudeltà o per distaccata curiosità o chissà per cos'altro, avesse notato che Cassie si rifiutava di dirlo e volesse stare a vedere cosa sarebbe successo se l'avesse detto.

Gli occhi di Cassie incontrarono i miei e rimasi scosso dal concentrato di odio, duro come il diamante, che vi scorsi. «Legion» rispose.

Il giorno seguente, facemmo venire Jonathan in ufficio. Lo chiamai e, con la voce più professionale che mi riuscì, gli chiesi se non gli dispiaceva fermarsi da noi dopo il lavoro, solo per darci una mano con alcune faccende. La stanza degli interrogatori principale, quella grande con la sala d'osservazione per i confronti all'americana, era occupata da Sam, alle prese con Andrews, ma a noi andava bene così. Volevamo una stanza piccola; più piccola era meglio andava, per noi. «Gesù, Giuseppe e Maria e tutti i sette nani» esclamò O'Kelly, «d'un tratto spuntano sospetti come funghi. Avrei dovuto togliervi prima gli agenti di supporto, farvi sbattere un po' e obbligarvi a tirare su quel culo dalle sedie.»

Preparammo la stanza con la stessa cura di un set teatrale. Foto di Katy da viva e da morta su mezzo muro, e di Peter e Jamie, delle impressionanti scarpe da ginnastica e dei graffi sulle mie ginocchia sull'altra metà. Avevamo anche una foto delle mie unghie spezzate, ma metteva più a disagio me di quanto non avrebbe fatto con Jonathan – ho i pollici dalla forma molto particolare e già a dodici anni le mie mani erano quasi come quelle di un uomo adulto – e Cassie non disse nulla quando la rimisi nel dossier. Ammonticchiati in un angolo c'erano mappe, grafici, un po' di roba esoterica, analisi ematiche, tempistiche, dossier e scatole dalle etichette misteriose.

«Dovrebbe bastare» dissi, osservando il risultato finale. In effetti era notevole, con un che da incubo.

«Già.» L'angolo di una delle foto dell'autopsia si stava staccando dalla parete e Cassie, sovrappensiero, la rimise a posto. La sua mano restò lì per un istante, i polpastrelli lievemente appoggiati sul braccio grigio e nudo di Katy. Sapevo cosa stava pensando: se Devlin era innocente, allora quello che stavamo per fare era una crudeltà gratuita. Io però non avevo spazio per quel genere di preoccupazioni. Più spesso di quanto non vogliamo ammettere, la crudeltà fa parte del nostro mestiere.

Avevamo ancora una mezz'ora prima che Devlin smontasse dal lavoro ed eravamo troppo agitati per intraprendere altre attività. Uscimmo dalla stanza degli interrogatori, che cominciava a mettermi un po' in agitazione con tutti quegli occhi sgranati che guardavano. Mi dissi che era un buon segno e andai nella sala di osservazione a vedere come se la stava cavando Sam.

Aveva fatto la sua brava ricerca e ora Terence Andrews aveva una bella porzione di lavagna bianca tutta per sé. Proveniva da una lunga tradizione di agricoltori di Westmeath. Aveva studiato commercio all'università di Dublino e sebbene si fosse laureato con un voto mediocre aveva apparentemente sviluppato un'ottima padronanza degli elementi di base: a ventitré anni aveva sposato Dolores Lehane, una giovane della Dublino bene conosciuta mentre studiava lettere, e il padre di lei, un immobiliarista, lo aveva avviato nell'ambiente. Dolores lo aveva lasciato quattro anni prima e viveva a Londra con il cugino di lui e un notevole assegno per gli alimenti. Il matrimonio non era stato benedetto dall'arrivo di figli, ma si era rivelato tutt'altro che improduttivo: Andrews disponeva infatti di un piccolo ma attivissimo impero concentrato nell'area metropolitana di Dublino ma con avamposti a Budapest e a Praga, e si diceva che gli avvocati di Dolores e il fisco non ne conoscessero nemmeno la metà.

Secondo Sam, però, si era lasciato trascinare un po' troppo. L'appariscente casa da dirigente d'azienda, la macchina da pappone (una Porsche argento personalizzata, con vetri oscurati e cromature, il set completo insomma) e la tessera del golf club erano solo una facciata. Andrews in realtà non aveva più contante di me, il direttore della sua banca si stava agitando e nel corso degli ultimi sei mesi aveva cominciato a svendere appezzamenti di terreno di sua proprietà, ancora non sfruttati, per saldare le numerose ipoteche. «Se quell'autostrada non attraverserà Knocknaree, e in fretta» riassunse, «il ragazzo è con le pezze al culo.»