L'umore era improvvisamente cambiato, l'esplosione di esuberanza si era dissipata e Cassie si era rinchiusa in un recinto di pensieri privati. Si teneva abbracciata alle ginocchia, volute di fumo salivano dalla sigaretta che bruciava, dimenticata, tra le sue dita. Di tanto in tanto le capita di essere di quell'umore. In quella circostanza ne fui felice. Neppure io avevo voglia di parlare. Riuscivo solo a pensare che stavamo per piombare su Jonathan Devlin con tutto quello di cui disponevamo; se mai fosse crollato, sarebbe stato quel giorno. In quel caso, non avevo la più pallida idea di quello che avrei fatto, di cosa sarebbe accaduto.
All'improvviso, Cassie sollevò la testa e andò con lo sguardo oltre le mie spalle. «Guarda» disse.
Mi voltai. Jonathan Devlin stava attraversando il cortile, con le spalle curve, le mani affondate nelle tasche del grande impermeabile marrone che indossava. Le linee altezzose degli alti edifici attorno a lui avrebbero dovuto schiacciarlo, invece mi sembrava che gli si conformassero, creando strane geometrie con lui come punto nodale, permeandolo di un significato denso e impenetrabile. Non ci aveva notati. Teneva la testa china e il sole, basso sui giardini, gli stava di fronte; forse a lui apparivamo solo come contorni indistinti, sospesi in una luminosa aureola come santi e doccioni scolpiti. Alle sue spalle, lasciava sull'acciottolato un'ombra lunga e ondeggiante.
Passò proprio sotto di noi e lo osservammo, da dietro, mentre avanzava verso l'entrata. «Be'…» Spensi la sigaretta. «Direi che è arrivato il nostro turno.»
Mi alzai e allungai una mano per aiutare Cassie a rimettersi in piedi, ma lei non si mosse. Mi fissò con occhi improvvisamente seri e indagatori.
«Cosa?» domandai.
«Non dovresti condurlo tu, questo interrogatorio.»
Non risposi. Rimasi lì sul ponte, con la mano protesa verso di lei. Dopo qualche istante, scosse la testa con aria disgustata e l'espressione di poco prima sparì. Mi afferrò la mano e si lasciò tirare su.
Lo portammo nella stanza degli interrogatori. Quando vide la parete sgranò gli occhi ma non proferì parola. «I detective Maddox e Ryan interrogano Jonathan Michael Devlin» pronunciò Cassie, rimescolando in una delle scatole e tirando fuori un fascicolo straripante. «Non è obbligato a dire nulla a meno che non lo desideri, ma tutto ciò che dirà verrà trascritto e potrà essere usato come prova. D'accordo?»
«Sono in arresto?» chiese Jonathan. Non si era mosso dalla porta. «Per cosa?»
«Cosa?» chiesi, stupito. «Ah, la lettura dei diritti… Santo cielo, no. È solo routine. Vogliamo solo aggiornarla sui progressi dell'indagine e vedere se ci può aiutare a fare un altro passo avanti.»
«Se fosse in arresto» aggiunse Cassie, lasciando cadere l'incartamento sul tavolo, «lo saprebbe. Per cosa pensava di poter essere in arresto?»
Jonathan si strinse nelle spalle. Lei gli sorrise, prese una sedia e la mise proprio di fronte alla spaventosa parete. «Prego, si sieda.» Dopo un momento, lui si tolse lentamente l'impermeabile e si sedette.
Lo aggiornai brevemente. Ero quello al quale lui aveva rivelato con fiducia la sua storia e quella era una piccola arma a corto raggio che non avevo intenzione di far esplodere fino al momento opportuno. Per il momento ero il suo alleato. Fui, in larga parte, onesto con lui. Gli parlai delle piste che avevamo battuto, degli esami di laboratorio eseguiti. Gli elencai, uno per uno, i sospetti che avevamo identificato ed eliminato: i compaesani convinti che lui stesse ostacolando il progresso, i pedofili e i tossici abituali, le Ombre in Tuta Sportiva, il tipo che pensava che il body di Katy fosse sfacciato, Sandra. Sentivo il fragile e silenzioso esercito di fotografie dietro di me, in attesa. Jonathan se la stava cavando bene, continuò a guardarmi fisso negli occhi per quasi tutto il tempo. Riuscivo però a vedere lo sforzo di volontà che si era imposto.
«Quindi, mi state dicendo che, in pratica, non avete concluso nulla» riassunse alla fine, con pesantezza. Appariva molto stanco.
«Oddio, no» intervenne Cassie. Era rimasta seduta all'angolo del tavolo, col mento appoggiato al palmo della mano, a osservare in silenzio. «Assolutamente no. Quello che il detective Ryan le sta dicendo è che abbiamo compiuto moltissimi progressi, in queste ultime settimane. Siamo riusciti a eliminare un sacco di gente. E questo è quello che ci resta.» Inclinò la testa verso la parete. Lui non le staccò mai gli occhi dal volto. «Abbiamo le prove che l'assassino di sua figlia è un uomo della zona, che conosce a fondo Knocknaree e dintorni. Disponiamo di prove scientifiche che collegano la sua morte con la scomparsa nel 1984 di Peter Savage e di Germaine Rowan, il che indica anche che l'assassino ha almeno trentacinque anni e ha mantenuto forti legami con l'area per oltre vent'anni. Molti degli uomini che corrispondono a questa descrizione hanno un alibi, quindi il campo si restringe ancor di più.»
«Le prove ci dicono anche» intervenni, «che non ci troviamo di fronte a un assassino che agisce sull'impeto del momento. Quest'uomo non ammazza a caso. Lo fa perché sente di non avere altra scelta.»
«Quindi pensate che sia un pazzo» disse Jonathan. Gli si contorse la bocca. «Un pazzo…»
«Non necessariamente» dissi. «Sto solo dicendo che a volte le situazioni sfuggono di mano, sfociano in tragedie che in realtà nessuno voleva accadessero.»
«Vede, signor Devlin, questo restringe ulteriormente il campo: cerchiamo qualcuno che conosceva tutti e tre i bambini e che aveva un motivo per volerli morti» spiegò Cassie. Stava in equilibrio sulle gambe posteriori della sedia, con le mani dietro la testa e gli occhi fissi su di lui. «Lo prenderemo. Ci stiamo avvicinando ogni giorno di più. Quindi, se c'è qualcosa che ci vuole dire… qualsiasi cosa, di entrambi i casi… questo è il momento.»
Jonathan non rispose subito. Fatta eccezione per il ronzio basso e sinistro delle luci al neon sopra di noi e il lento e monotono scricchiolio della sedia sulla quale Cassie si stava dondolando, la stanza era immersa nel silenzio. Jonathan spostò lo sguardo da Cassie alle fotografie: Katy sospesa in quell'impossibile arabesque, Katy che rideva su un prato verde con i capelli che svolazzavano da una parte e un panino in mano, Katy con un occhio semiaperto e sangue scuro incrostato sul labbro. Quello che vedevo sul volto dell'uomo era dolore nudo e crudo. Dovetti fare uno sforzo per non distogliere gli occhi e guardare altrove.
Il silenzio si protrasse. Riconobbi che, in maniera quasi impercettibile, qualcosa stava accadendo in Jonathan. C'è una sorta di crollo specifico della bocca e della colonna vertebrale, come un cedimento dei muscoli sottostanti, che i detective conoscono: appartiene all'istante che precede la confessione di un sospettato, quando alla fine, quasi con sollievo, lui lascia che le difese lo abbandonino. Cassie aveva smesso di dondolarsi sulla sedia e io sentivo il cuore in gola. Anche le fotografie, dietro di me, sembravano emettere piccoli respiri… inspiravano, trattenevano, espiravano… pronte a scivolare giù dalla parete, a involarsi lungo il corridoio e a uscire nella sera scura, liberate, se solo lui avesse detto la parola fatale.
Jonathan si passò duramente una mano sulla bocca, incrociò le braccia e ricambiò lo sguardo di Cassie. «No» disse. «Non c'è niente.»
All'unisono, Cassie e io lasciammo andare il fiato. In realtà sapevo che era stato troppo sperare che finisse così in fretta e ora, dopo quell'istante di trepida attesa, quasi non mi importava più. Perché a quel punto ero sicuro almeno che Jonathan sapesse qualcosa. Ce l'aveva praticamente detto.