Lo avevamo fatto molte altre volte. È la nostra ultima spiaggia, quando sappiamo che un sospetto è colpevole, abbiamo bisogno della confessione e lui non vuole parlare. Dopo lo slancio iniziale e la mossa di afferrarmi il braccio da parte di Cassie, lentamente mi rilasso e, senza smettere di lanciare occhiate torve al sospettato, mi scrollo via di dosso le mani di Cassie, faccio qualche torsione per sgranchirmi spalle e collo e crollo di nuovo a sedere scompostamente sulla sedia, le dita che tamburellano nervosamente il piano del tavolo. A quel punto subentra Cassie che, facendo finta di tenermi d'occhio per accertarsi che non mi faccia prendere da qualche altro attacco di ferocia, riprende l'interrogatorio. Qualche minuto dopo ha un sobbalzo, controlla il cellulare e dice: "Merda, devo rispondere. Ryan… ma stai calmo, capito? Okay? Ricorda quello che è accaduto l'ultima volta". E ci lascia soli. Funziona sempre. Di solito non devo neppure alzarmi dalla sedia. Quante volte l'abbiamo fatto… dieci, dodici? L'avevamo perfezionato con la stessa cura degli stuntman del cinema.
Solo che questa volta era tutto vero e mi faceva arrabbiare il fatto che Cassie non lo capisse. Cercai di liberare il braccio, ma lei era più forte di quanto non mi fossi aspettato, i suoi polsi sembravano d'acciaio. Sentii una cucitura che partiva da qualche parte, nella mia manica. Ci strattonammo un po' in quella goffa situazione. «Lasciami andare…»
«Rob, no…»
La sua voce mi giunse attutita e priva di significato nell'immenso ruggito che avevo in testa. Vedevo solo Jonathan, sopracciglia abbassate e mento protratto come un boxeur, in un angolo, a pochi metri di distanza. Spinsi il braccio in avanti con tutta la forza che avevo in corpo e sentii che Cassie mancava la presa a terra con un piede, ma inciampai nella sedia e prima di poterle dare un calcio e buttarla da una parte per raggiungere Jonathan Cassie aveva ripreso l'equilibrio, mi aveva preso l'altro braccio e me lo stava torcendo dietro la schiena. Il tutto con un'unica, rapida mossa. Mi mancò il fiato.
«Che cazzo stai facendo?» mi sibilò in un orecchio, furibonda. «Non sa niente di niente.»
Le parole mi colpirono come una secchiata d'acqua fredda in faccia. Ma anche se si sbagliava, sapevo che non c'era nulla che potessi fare, proprio nulla, e rimasi senza respiro, impotente. Mi sentivo come se mi avessero disossato.
Cassie avvertì che la tensione in me si stava allentando. Mi spinse di lato e fece un passo indietro repentino, con le mani ancora tese e pronte. Ci fissammo come nemici, da una parte all'altra della stanza, entrambi col fiatone.
C'era qualcosa di scuro che le si stava allargando sul labbro inferiore e dopo un istante mi resi conto che era sangue. Per un orribile momento, come se fossi stato in caduta libera, pensai di averla colpita. Scoprii dopo che non ero stato io: quando mi ero staccato, per il contraccolpo si era data una manata sulla bocca e si era tagliata il labbro contro gli incisivi. Non che la cosa facesse molta differenza, ma quella visione mi fece tornare in me. «Cassie…» cominciai.
Lei mi ignorò. «Signor Devlin» disse freddamente, come se non fosse successo nulla. C'era solo un accenno di tremore nella sua voce. Jonathan – mi ero completamente dimenticato di lui – avanzò lentamente dall'angolo senza togliermi gli occhi di dosso. «Per il momento la lasciamo andare senza formalizzare alcuna accusa. Ma le consiglierei di restare dove possiamo trovarla e di non tentare di contattare la vittima dello stupro. Chiaro?»
«Certo» rispose Devlin, dopo un istante. «Bene.» Rimise in piedi la sedia con uno strattone, prese l'impermeabile che si era attorcigliato allo schienale e se lo rimise con scatti rapidi e arrabbiati. Sulla porta, si voltò e mi rivolse uno sguardo duro. Pensai per un momento che mi avrebbe detto qualcosa, che avrebbe minacciato di denunciarmi. O che, dopotutto, mi gettasse un qualche inquietante brandello di informazione… Ma cambiò idea e se ne andò, scuotendo la testa disgustato. Cassie lo seguì fuori e si richiuse la porta alle spalle, sbattendola con un tonfo.
Mi lasciai cadere su una sedia e mi presi il viso tra le mani. Non avevo mai fatto nulla del genere prima di allora. Odio profondamente la violenza fisica, è sempre stato così. Il solo pensiero mi fa venire i brividi. Anche quando facevo il prefect, probabilmente con più potere e meno responsabilità di un qualsiasi adulto al di fuori dei dittatori di qualche piccolo paese sudamericano, non ho mai bacchettato nessuno. Ma un minuto prima ero stato sul punto di azzuffarmi con Cassie come un bulletto ubriaco in una rissa da bar, di battermi con Jonathan Devlin nella stanza degli interrogatori trascinato dal desiderio incontenibile di prenderlo a ginocchiate nello stomaco e sfondargli la faccia fino a renderla una poltiglia sanguinolenta. E avevo fatto male a Cassie. Mi chiesi con lucido distacco se non stessi perdendo il senno.
Alcuni minuti dopo, Cassie rientrò, chiuse la porta e ci si appoggiò, con le mani infilate nelle tasche dei jeans. Il labbro aveva smesso di sanguinarle.
«Cassie» dissi, passandomi le mani sulla faccia. «Mi dispiace veramente. Stai bene?»
«Che cazzo ti ha preso?» Aveva una macchia di fuoco sugli zigomi.
«Pensavo che sapesse qualcosa. Ne ero certo.» Mi tremavano così tanto le mani che sembravano quelle di un attorucolo incapace di simulare uno shock. Le strinsi per fermarle.
«Rob» disse, lei, calma, «non ce la puoi fare a reggere.» Non risposi. Dopo un bel po', sentii la porta chiudersi alle sue spalle.
9
Quella sera mi ubriacai più di quanto non avessi fatto negli ultimi quindici anni. Passai metà della nottata seduto sul pavimento del bagno, a fissare il wc con lo sguardo vitreo e la speranza di riuscire a vomitare e chiuderla lì. I bordi del mio campo visivo ondeggiavano in maniera nauseante a ogni palpito del cuore e le ombre negli angoli guizzavano, pulsavano e si contorcevano in forme appuntite, piccole e striscianti, che sparivano al battito di ciglia successivo. Alla fine, quando mi resi conto che, pur non dando segni di migliorare, la nausea forse non sarebbe peggiorata, barcollai verso la mia stanza e mi buttai sul letto vestito. Caddi in un sonno profondo.
Feci dei sogni inquietanti, segnati da ostacoli e intoppi. Qualcosa che si dibatteva e ululava in una sacca di tela, una risata e un accendino che si avvicinavano. Vetro infranto sul pavimento della cucina e la madre di qualcuno che singhiozzava. Ero di un nuovo un pivello in una sperduta contea di confine e Jonathan Devlin e Cathal Mills si nascondevano sulle colline con fucili e un cane da caccia. Conducevano un'esistenza burrascosa e noi dovevamo prenderli, io e altri due detective della Omicidi, alti e freddi come statue di cera. Gli stivali affondavano nel fango viscoso che ti tirava giù. Mi svegliavo e mi riaddormentavo, in lotta con le coperte, le lenzuola attorcigliate e impregnate di sudore.
Mi svegliai la mattina dopo con un'immagine in mente, chiara e assoluta, sbattuta lì davanti come un'insegna al neon. Niente a che vedere con Peter o Jamie o Katy: Emmett, Tom Emmett, uno dei due detective della Omicidi venuto brevemente a Ballysperdutochissadove quando ero lì in addestramento. Emmett era alto e magrissimo, sempre vestito bene ma con sobrietà (adesso che ci penso, forse fu da lui che mi feci la mia prima e immutabile convinzione di come dovevano abbigliarsi i detective della Omicidi), con un viso che sembrava appena uscito da un vecchio film di cowboy, segnato e levigato come un pezzo di legno rimasto per molto tempo all'aria aperta. Era ancora nella squadra quando ci entrai io, mentre ora è in pensione, e sembrava un tipo simpatico anche se non riuscii mai a superare la soggezione iniziale che provai nei suoi confronti. Ogni volta che mi parlava, rimanevo paralizzato come uno studentello sotto interrogazione.
Un pomeriggio me ne stavo rintanato nel parcheggio di Ballysperdutochissadove, a fumare e a cercare di non farmi notare troppo mentre origliavo la loro conversazione. L'altro detective aveva fatto una domanda che mi era sfuggita ed Emmett aveva scosso la testa brevemente. «Se non è lui, allora abbiamo fatto solo stronzate» aveva detto, aspirando un'ultima boccata rude dalla sigaretta prima di spegnerla sotto il tacco di un'elegante scarpa. «Dovremo tornare. Ricominciare dall'inizio e capire cosa è andato storto.» Poi erano rientrati nella stazione, fianco a fianco, con le spalle curve e taciturni nelle loro discrete giacche scure.