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Ci distendemmo l'uno di fianco all'altra su quel tetto, con le mani dietro la testa, i gomiti che si sfioravano. Mi girava ancora un po' la testa per avere ballato e bevuto, ma piacevolmente. Il venticello era tiepido sul mio volto e, anche con le luci della città, si vedevano le costellazioni: l'Orsa maggiore, la cintura di Orione. Il pino in fondo al giardino stormiva come il mare, incessantemente. Per un istante mi parve che l'universo si fosse capovolto e che stessimo planando in un vasto bacile nero pieno di stelle. E seppi, al di là di ogni dubbio, che sarebbe andato tutto bene.

Mi tenni il bosco per il sabato sera, coccolandomi il pensiero come un bambino alle prese con un enorme uovo di Pasqua con una misteriosissima sorpresa dentro. Sam era a Galway per il weekend, al battesimo di una nipotina: ha una di quelle famiglie molto estese che organizzano riunioni e incontri praticamente tutte le settimane. C'era sempre qualcuno che veniva battezzato, o che si sposava, o che veniva sepolto. Cassie sarebbe uscita con un'amica e Heather avrebbe partecipato a uno speed-date in un hotel da qualche parte. Nessuno si sarebbe accorto della mia assenza.

Arrivai a Knocknaree verso le sette e parcheggiai nella piazzola di sosta. Mi ero portato il sacco a pelo, una torcia, un thermos di caffè molto corretto e un paio di sandwich – quei preparativi mi avevano fatto sentire un po' ridicolo, un po' come uno di quegli escursionisti tecnologicamente organizzati, o come un ragazzino scappato di casa – ma nulla per accendere un fuoco: gli abitanti della zona residenziale erano ancora molto allarmati, si sarebbero fiondati a chiamare la polizia se avessero visto un qualche misterioso chiarore e mi sarei trovato in una situazione estremamente imbarazzante. Inoltre, non sono un boy scout fatto e finito e avrei rischiato di mandare a fuoco quello che rimaneva del bosco.

Era ancora chiaro, lunghe lame di luce davano alla pietra del torrione una colorazione rosa dorata, e gli scavi e gli ammassi di terra smossa davano alla scena un che di magico e triste. Si udiva un agnello belare in lontananza, nei campi, e l'aria aveva un odore ricco e tranquillo: di fieno, di mucche, di fiori sconosciuti. Stormi di uccelli si esercitavano nella formazione a V oltre il crinale della collina. Fuori dal cottage, il cane da pastore si sedette sulle zampe posteriori e, fissandomi, produsse un mezzo latrato di preavviso. Poi decise che non rappresentavo una minaccia e si riaccucciò. Seguii gli accidentati percorsi degli archeologi, larghi a malapena per le carriole, attraversai il sito e raggiunsi il bosco: questa volta indossavo un vecchio paio di scarpe da ginnastica, jeans frusti e un pesante maglione.

Se, come me, siete essenzialmente gente di città, allora è probabile che quando immaginate un bosco pensiate a una cosa semplice: alberi tutti uguali in file ordinate, un morbido tappeto di foglie morte o aghi di pino, tranquillo come il disegno di un bambino. Magari i boschi artificiali creati dall'uomo saranno così, non ho modo di saperlo. Il bosco di Knocknaree, invece, era un bosco naturale, e più intricato e segreto di quanto ricordassi. Aveva un proprio ordine, le proprie fiere battaglie e alleanze. In quel momento io ero un intruso ed ebbi l'impressione, diffusa in tutto il corpo come un pizzicore, che la mia presenza fosse stata istantaneamente colta e che l'ambiente mi stesse osservando con un ambiguo sguardo collettivo, senza accettarmi o respingermi, per ora. Con riserva di giudizio.

Nella radura di Mark c'era cenere fresca nel punto in cui era stato acceso il fuoco e altri mozziconi di sigarette arrotolate sparsi sulla nuda terra lì attorno. C'era tornato, dopo la morte di Katy. Sperai ardentemente che non scegliesse proprio quella notte per ricongiungersi al suo patrimonio storico. Estrassi dalle tasche i sandwich, il thermos e la torcia, distesi il sacco a pelo sull'area compatta di erba schiacciata dove Mark aveva disteso il suo e mi misi a girovagare per il bosco, senza fretta.

Fu come imbattersi nelle rovine di una grande città antica, Atlantide o Pompei. Gli alberi si innalzavano più alti dei pilastri delle cattedrali, lottavano per farsi spazio, sostenevano grossi tronchi caduti, seguivano piegandosi la direzione del pendio della collina. Querce, faggi, frassini e altre specie di cui non conoscevo il nome. Lunghe lance di luce filtravano, deboli e sacre, attraverso le verdi arcate. Grandi estensioni di edera ricoprivano gli enormi tronchi, penzolavano come cascate dai rami, trasformavano i ceppi in menhir. I miei passi erano attutiti da uno spesso strato molle di foglie cadute. Mi fermai a rivoltarne un tratto con la punta della scarpa e mi colpì un forte odore di marcio. Scoprii la terra scura e umida, le teste delle ghiande, il pallido e frenetico dimenarsi di un verme. Degli uccelli si alzarono in volo lanciando richiami tra i rami, piccoli tramestii di avvertimento esplosero al mio passaggio.

Boscaglia e frammenti erosi del muro di pietra. Radici nodose, verdi di muschio e più spesse del mio braccio. Le basse rive del fiume, infestate di rovi (vi scivolavamo, sulle mani, sul sedere… "Ahia! La gamba!") e sovrastate da cespugli di bacche di sambuco e salici. Il fiume era come un foglio di oro vecchio, increspato e punteggiato di nero. Vi galleggiavano sottili foglie gialle, e il loro dondolio pareva quello di una massa solida.

La mia mente vacillava, vorticando freneticamente. Ogni passo faceva scattare qualcosa intorno a me, ma come in un codice Morse ad alta frequenza che mi era impossibile cogliere. Lì avevamo corso, scapicollandoci con passo sicuro giù per la collina, lungo la ragnatela di sentieri appena accennati. Lì avevamo mangiato mele selvatiche dalle forme diverse prendendole da un albero contorto. Sollevando gli occhi verso quel turbinio di foglie, quasi mi aspettavo di vederci lassù, aggrappati ai rami come gatti selvatici. Dai margini di una di quelle piccole radure con l'erba alta e il cerfoglio selvatico, avevamo osservato Jonathan e i suoi amici tenere Sandra ferma a terra. Da qualche parte, magari nel punto esatto in cui mi trovavo io, il bosco aveva tremato e si era aperta una voragine che aveva inghiottito Peter e Jamie.

Non avevo un piano prestabilito per quella notte, non nel senso stretto della parola. Andare nel bosco, dare un'occhiata in giro, passarci la notte e sperare che accadesse qualcosa. Fino a quel momento, la mancanza di organizzazione non mi era parsa un ostacolo. Negli ultimi tempi, ogni volta che avevo tentato di pianificare qualcosa, era andato tutto storto in maniera spettacolare, era stato un fallimento con i fuochi d'artificio. Dovevo cambiare drasticamente tattica, e cosa poteva esserci di più drastico che buttarmi nella cosa senza nulla di preordinato e aspettare semplicemente di vedere cosa mi avrebbe portato l'onda buona? Immagino anche che quel modo di agire esercitasse un certo fascino sul mio senso del bizzarro. Credo di aver sempre desiderato, nonostante dal punto di vista del temperamento sia totalmente inadatto al ruolo, di vestire i panni dell'eroe mitico, aureo e indomito che galoppa senza sella per andare incontro al proprio destino su un cavallo che nessun altro sa cavalcare.

Ora che ero lì, però, la cosa non mi sembrava più un salto di fede imbevuto di spirito libero. Sembrava solo vagamente un po' hippy – avevo anche pensato di aiutare il mio subconscio ad avere successo con qualche genere di sostanza, ma la marijuana mi fa sempre dormire – e un po' più che vagamente idiota. D'un tratto mi resi conto che l'albero al quale ero appoggiato poteva essere benissimo quello dove ero stato trovato, che poteva presentare ancora le vecchie e pallidi cicatrici prodotte dalle mie unghie piantate nella corteccia. Mi resi anche conto che cominciava a imbrunire.

Fui quasi sul punto di andarmene. Tornai alla radura, scrollai il sacco a pelo dalle foglie morte e cominciai ad arrotolarlo. Mi trattenne il pensiero di Mark. Aveva trascorso la notte lì, e non una volta sola ma con regolarità, e non sembrava che gli fosse passato nemmeno per l'anticamera del cervello che potesse essere un'esperienza pericolosa. Non potevo lasciare che vincesse uno a zero, che fosse venuto a saperlo o meno. Si era acceso un fuoco, lui, ma io avevo una torcia e una Smith & Wesson, anche se mi sentivo un po' stupido ad averlo pensato. Ero a poche centinaia di metri soltanto dalla civiltà; dall'abitato, se non altro. Mi fermai, col sacco a pelo in mano, e un istante dopo lo srotolai nuovamente, mi ci intrufolai, lo chiusi fino alla cintura e mi appoggiai con la schiena a un albero.