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La Land Rover, bianca e scintillante, lì nell'oscurità, mi apparve come una meravigliosa chiesa pronta a offrire riparo. Mi ci vollero due o tre tentativi prima di riuscire ad aprire la portiera. Feci anche cadere le chiavi, per cui dovetti cercare freneticamente tra foglie ed erba secca, guardandomi selvaggiamente alle spalle, quasi certo ormai di non riuscire più a trovarle, fino a quando non mi ricordai di avere la torcia ancora stretta in pugno. Alla fine mi arrampicai dentro, sbattei il gomito contro il volante, chiusi tutte le portiere e rimasi lì a sedere, ansimando per un po' d'aria e sudando copiosamente. Tremavo troppo per mettermi alla guida e dubito anche che sarei riuscito ad andarmene di lì in retromarcia senza sbattere contro qualcosa. Trovai le sigarette e me ne accesi una. Sentivo il disperato bisogno di qualcosa da bere, di qualcosa di forte, o anche di una bella canna. Avevo i jeans sporchi di fango all'altezza delle ginocchia ma non ricordavo di essere caduto.

Quando le dita furono sufficientemente salde per premere i numeri chiamai Cassie. Doveva essere già ben oltre mezzanotte, forse molto più tardi, ma rispose al secondo squillo e sembrava sveglia e pimpante. «Ciao, come va?»

Per un orribile momento pensai di non riuscire a tirare fuori la voce. «Dove sei?»

«Sono arrivata a casa da una ventina di minuti. Emma, Susanna e io siamo andate al cinema e poi a cena al Trocadero e, Dio, ci hanno servito un vino rosso sublime, incredibile. C'erano tre tipi che hanno cercato di attaccare bottone ed Emma diceva che erano attori e che ne aveva visto uno in TV in quella serie ospedaliera…»

Era allegrotta ma non proprio ubriaca. «Cassie» la interruppi, «sono a Knocknaree. Allo scavo.»

Una pausa, brevissima, poi, con voce calma e diversa, mi chiese: «Vuoi che venga a prenderti?».

«Sì, grazie.» Non me ne ero reso conto finché non me l'aveva domandato, ma era proprio quello il motivo per cui l'avevo chiamata.

«Okay, vengo subito.» Riattaccò.

Ci mise un'eternità ad arrivare, tanto perché cominciassi ad andare nel panico e a immaginare scenari da incubo: era stata spiaccicata da un camion sulla tangenziale, aveva bucato e l'avevano rapita dei trafficanti di esseri umani lungo la strada… Trovai la forza di estrarre la pistola e mettermela in grembo, oltre al buonsenso di non togliere la sicura. Accesi una sigaretta dopo l'altra e gli occhi mi lacrimavano per l'abitacolo pieno di fumo. Fuori, delle cose frusciavano e si muovevano nella boscaglia, ramoscelli si spezzavano. Non potevo fare a meno di voltarmi ora da una parte ora dall'altra, con il cuore che batteva all'impazzata e la mano che stringeva la pistola. Ero certo a volte di vedere un viso al finestrino, feroce e ghignante, ma non c'era mai nessuno. Accesi la luce interna ma mi faceva sentire troppo esposto, un uomo primitivo e i predatori attirati dal fuoco e in attesa oltre il cerchio, così la spensi subito.

Alla fine sentii il ronzio della Vespa e vidi il faro spuntare da dietro la collina. Rimisi la pistola nella fondina e aprii la portiera. Non volevo che Cassie mi vedesse trafficarci. Dopo l'oscurità, quella luce era sconvolgente, surreale. Si fermò in strada e appoggiò il piede a terra. Mi chiamò con un "ciao".

«Ciao» dissi, scendendo goffamente dall'auto. Avevo le gambe rigide e contratte: probabilmente ero stato tutto il tempo con i piedi puntati contro il pavimento. «Grazie.»

«Nessun problema. Ero sveglia.» Era arrossata e aveva gli occhi lucidi per il vento. Quando mi avvicinai, percepii il freddo che emanava. Si tolse lo zainetto dalle spalle e ne estrasse un altro casco. «Tieni.»

Con il casco non sentii più nulla, solo il rumore sommesso del sangue che mi pulsava nelle orecchie. L'aria scivolava dietro di me, scura e fresca come acqua. Le luci delle auto e le insegne al neon mi passavano oltre come pigre scie. La cassa toracica di Cassie era sottile e solida tra le mie mani, e si spostava quando lei cambiava marcia o si piegava per curvare. Era come se la Vespa galleggiasse sulla strada. Mi sarebbe piaciuto che ci trovassimo su una di quelle infinite freeway americane dove puoi andare avanti per tutta la notte, per sempre.

Stava leggendo quando l'avevo chiamata. Il futon era già stato tirato fuori, con il piumino patchwork e i cuscini bianchi; Cime tempestose e la maglietta di varie taglie più grande erano ai piedi del letto. C'erano pile semiorganizzate di materiale del lavoro: una foto del segno della legatura sul collo di Katy mi saltò agli occhi, rimase nell'aria come un'immagine residua. Il resto era sparso sul tavolino basso e sul divano, coperto dagli abiti che Cassie aveva indossato per uscire: un paio di jeans scuri e stretti, un top di seta rosso con ricami in oro, di quelli che si allacciano al collo e lasciano la schiena nuda. L'abat-jour, una cosina tondeggiante con il paralume in carta gialla, dava alla stanza un calore accogliente.

«Da quando non mangi?» chiese Cassie.

Mi ero dimenticato dei sandwich, forse erano da qualche parte nella radura. Così come il sacco a pelo e il thermos. Avrei recuperato il tutto la mattina dopo, insieme all'auto. Al pensiero di tornarci, foss'anche di giorno, un brivido mi corse velocemente lungo il collo. «Non lo so bene» risposi.

Cassie cercò nell'armadio e mi passò una bottiglia di brandy e un bicchiere. «Un goccio mentre ti preparo qualcosa. Uova e toast?»

A nessuno dei due piace il brandy, e infatti la bottiglia era ancora chiusa e polverosa, forse un premio di qualche pesca natalizia o roba del genere. Ma una piccola e più obiettiva parte della mia mente era sicura che Cassie avesse ragione: ero sotto shock. «Sì… fantastico» dissi. Mi sedetti sul bordo del futon – il pensiero di liberare il divano da tutta quella roba sembrava complicato oltre ogni immaginazione – e rimasi a fissare la bottiglia di brandy per un po', finché non mi resi conto che, teoricamente, avrei dovuto aprirla.

Ne buttai giù un po' troppo e tossii (Cassie mi lanciò un'occhiata ma non aggiunse nulla). Ne sentii l'impatto, lente strisce dolci e brucianti di calore che si avventuravano nelle mie vene. La lingua mi pulsava, forse c'era stato un momento in cui me l'ero morsicata. Me ne versai un altro po' e lo sorseggiai con più cautela. Cassie si muoveva con maestria nel cucinotto: una mano agli odori da un mobiletto, l'altra alle uova dal frigo, l'anca per richiudere un cassetto. Aveva lasciato i Cowboy Junkies a volume basso. Di solito mi piacciono, ma quella sera continuavo a sentire cose nascoste sotto la linea di basso, rapidi bisbigli, richiami, un battito della sezione ritmica che non ci sarebbe dovuto essere. «Possiamo spegnere?» domandai, quando non ne potei proprio più. «Eh?»

Lasciò l'osservazione della padella e si girò con un cucchiaio di legno in mano. «Sì, certo» rispose dopo un istante. Spense lo stereo, prese il pane, tostato nel frattempo, e ci mise sopra le uova. «Ecco qua.»

Quel profumo mi fece ricordare che avevo fame. Buttai giù il tutto a grandi morsi, fermandomi a stento per respirare. Era pane da toast ai cereali e le uova erano infarcite di spezie ed erbe aromatiche: non avevo mai mangiato niente di più buono e gustoso. Cassie era seduta a gambe incrociate sul futon e mi osservava alle prese con il toast. «Ancora?» chiese, quando ebbi finito.

«No» risposi. Tanto e troppo in fretta. Lo stomaco protestava con crampi malefici. «Grazie.»

«Cosa è successo?» mi domandò con calma. «Ricordi qualcosa?»

Cominciai a piangere. Piango così raramente – mi sarà capitato una volta o due da quando avevo tredici anni, e credo che entrambe le volte fossi ubriaco, e quindi non contano – che mi ci volle un po' per capire cosa stava accadendo. Mi passai una mano sulla faccia e mi osservai le dita bagnate. «No» risposi. «Nulla che possa essere utile. Ricordo tutto di quel pomeriggio. Ricordo che andammo nel bosco, ricordo le cose di cui parlammo, ricordo che sentimmo qualcosa… non so cosa… e di esserci messi a correre per andare a vedere cosa fosse… E poi il panico. Cazzo, il panico più totale.» Mi si incrinò la voce.