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«Ehi» fece Cassie. Si allungò sul futon e mi mise una mano sulla spalla. «È un grosso passo avanti, tesoro. La prossima volta ti ricorderai il resto.»

«No» la contraddissi. «No, non andrà così.» Non sarei mai riuscito a spiegarlo e ancora adesso non so perché ne fossi così sicuro. Era stato il mio asso nella manica, l'ultima pallottola, e l'avevo sprecata. Mi presi il viso tra le mani e piansi come un bambino.

Non mi abbracciò né cercò di consolarmi, e gliene fui grato. Se ne rimase lì composta, a massaggiarmi la spalla con il pollice mentre continuavo a piangere. E non piangevo per quei tre bambini, non posso dire una cosa del genere, ma per la distanza impossibile da colmare che mi divideva da loro, per i milioni di chilometri che separavano quei pianeti. Per tutto quello che avevamo avuto da perdere. Eravamo stati così piccoli, così sconsideratamente certi che insieme avremmo potuto cimentarci contro il buio e le complesse minacce del mondo adulto, buttarci ridendo nella mischia.

«Scusami» dissi alla fine. Mi raddrizzai e mi asciugai la faccia col dorso della mano.

«Per cosa?»

«Per avere fatto la figura dell'idiota. Non era mia intenzione.»

Cassie scrollò le spalle. «Siamo pari. Così adesso sai come mi sento quando faccio quei sogni e tu mi devi svegliare.»

«Sì?» Non mi era mai venuto in mente.

«Sì.» Rotolò sul futon, allungò una mano verso un pacchetto di fazzoletti di carta che stavano nel comodino e me lo passò. «Soffia.»

Feci un sorriso stiracchiato e mi soffiai il naso. «Grazie, Cass.»

«Come va?»

Inspirai profondamente ed ebbi un fremito, poi, senza che potessi trattenermi, sbadigliai. «Sto bene.»

«Sei quasi pronto a crollare?»

La tensione stava lentamente scivolandomi via dalle spalle e mi sentivo più stanco di quanto non fossi mai stato in tutta la mia vita, ma continuavano a esserci piccole ombre che comparivano rapide dietro le palpebre e tutti gli scricchiolii e i rumori della casa, di cui in altri momenti non mi sarei accorto, ora mi facevano sussultare. Sapevo che quando Cassie avesse spento la luce e mi fossi ritrovato solo sul divano, l'aria si sarebbe riempita di cose senza nome che premevano, muovevano la bocca senza emettere suoni e si agitavano. «Credo di sì» risposi. «Ti dispiace se dormo qui?»

«Nessun problema. Ma sappi che se ti metti a russare finisci dritto dritto sul divano.» Si drizzò a sedere, sbattendo le palpebre, e cominciò a togliersi le mollette dei capelli.

«Niente russamenti» promisi. Riuscii a togliermi le scarpe e i calzini, ma svestirmi mi parve impresa impossibile. Mi infilai sotto il piumino con tutti i vestiti addosso.

Cassie si tolse la felpa, scivolò sotto le coperte accanto a me e i suoi riccioli si sparsero, ribelli. Senza neppure pensare a quello che facevo, l'abbracciai e lei si rannicchiò con la schiena contro di me.

«'Notte, piccola» le dissi. «Grazie di nuovo.»

Mi diede una pacca impacciata sul braccio e si allungò per spegnere l'abat-jour. «'Notte, scemo. Dormi bene. E svegliami se hai bisogno.»

I suoi capelli sul mio volto avevano un dolce odore di verde, di foglie di tè. Sistemò la testa sul cuscino e sospirò. Era calda, compatta e a me vennero in mente l'avorio lucido, le castagne lucenti: la soddisfazione pura di quando hai nella mano qualcosa che ci sta alla perfezione. Non ricordavo l'ultima volta che avevo tenuto stretto qualcuno in quel modo.

«Sei sveglia?» mormorai, dopo un po'.

«Sì» rispose Cassie.

Restammo immobili. Sentii l'aria intorno a noi cambiare, sbocciare e rabbrividire come su una strada rovente. Il cuore mi batteva all'impazzata, o forse era il suo che batteva contro il mio petto, non ne sono certo. La feci voltare tra le mie braccia e la baciai, e dopo un istante lei ricambiò il bacio.

So di aver detto che scelgo sempre di sdrammatizzare rispetto all'irrevocabile e, sì, quello che intendevo è che sono sempre stato un codardo, ma mentivo: non sempre. Ci fu quella notte. Ci fu quella volta.

10

Una volta tanto fui il primo ad alzarmi. Era presto, prestissimo, le strade erano ancora silenziose e il cielo era azzurro e punteggiato d'oro pallido, perfetto come in un fermo immagine cinematografico. Cassie, lassù sui tetti, senza nessuno che potesse guardare dentro attraverso la finestra, non chiudeva quasi mai le tende. Potevo aver dormito non più di un'ora o due. Da qualche parte uno stormo di gabbiani lanciò strida selvagge e lamentose.

In quella luce sobria e discreta l'appartamento aveva un'aria abbandonata e triste: piatti e bicchieri della sera prima sparsi sul tavolino basso, una lieve corrente d'aria che sfogliava le pagine dei miei appunti, il mio maglione abbandonato sul pavimento, macchia scura, e lunghe ombre oblique dappertutto. Sentii una fitta sotto lo sterno, così intensa e fisica che pensai dovesse essere sete. C'era un bicchiere d'acqua sul comodino, lo presi e bevvi, ma il dolore rimase.

Pensai che il mio movimento avesse svegliato Cassie, ma lei non si mosse. Dormiva profondamente nell'incavo del mio braccio, le labbra semiaperte, una mano abbandonata sul cuscino. Le scostai i capelli dalla fronte e la svegliai con un bacio.

Non ci alzammo fino alle tre circa. Il cielo era diventato grigio e pesante, un brivido mi trafisse uscendo dal calore delle lenzuola. «Ho una fame da lupo» disse Cassie, abbottonandosi i jeans. Era molto bella quel giorno, con quei capelli arruffati e le labbra piene, lo sguardo sognante e misterioso di bambina assorta in una sua fantasia, e quella nuova radiosità, che stonava con la tristezza del pomeriggio, in qualche modo mi metteva a disagio. «Uno spuntino veloce?»

«No, grazie» dissi. Era la nostra routine del weekend quando mi fermavo a dormire da lei: una colazione irlandese come si deve e una lunga passeggiata sulla spiaggia, ma non potevo sopportare né il pensiero angoscioso di parlare di quello che era accaduto la sera prima né la pesante complicità che implicava evitarlo. L'appartamento mi parve all'improvviso minuscolo e claustrofobico. Avevo graffi e lividi in posti strani: sullo stomaco, sul gomito, e un solco piccolo ma profondo e doloroso su una coscia. «No, è meglio che vada a recuperare la macchina.»

Cassie infilò la testa in una T-shirt e, attraverso la stoffa, disse con apparente naturalezza: «Vuoi un passaggio?». Ma avevo colto il breve lampo di sorpresa nei suoi occhi.

«Credo che prenderò l'autobus» dissi. Trovai le scarpe sotto il tavolino basso. «Cammino volentieri un po'. Ti chiamo dopo, va bene?»

«D'accordo» disse lei allegra, ma sapevo che era successo qualcosa tra noi, qualcosa di estraneo, sottile e pericoloso. Sulla porta, ci abbracciammo brevemente, ma stretti stretti.

Feci un tentativo poco convinto di aspettare l'autobus, ma ero irrequieto e smanioso e dopo dieci, quindici minuti mi dissi che era troppo impegnativo. Due autobus diversi, gli orari della domenica… Rischiavo di metterci tutto il giorno. La verità era che non avevo nessuna voglia di andare a Knocknaree senza essere certo che ci fosse un bel gruppo di archeologi rumorosi e pieni di energia. Pensare a quel posto, deserto e silenzioso sotto un cielo basso e grigio, ora mi faceva venire una leggera nausea. Presi una tazza di cattivo caffè al bar di un distributore di benzina e mi diressi a piedi verso casa. Monkstown è a sette, otto chilometri da Sandymount, ma non avevo nessuna fretta: a casa avrei trovato di sicuro Heather, con della roba verdastra e radioattiva sulla faccia e una puntata di Sex and the City a tutto volume, impaziente di raccontarmi delle sue conquiste allo speed-date e di sapere dove fossi stato e come mai i miei jeans erano tutti infangati e dove fosse finita la mia auto. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse sganciato sulla testa una serie infinita di bombe di profondità.

Ero certo di aver appena commesso uno degli errori più grandi della mia vita. Mi era già capitato di andare a letto con la persona sbagliata, ma non avevo mai fatto niente di neppure lontanamente accostabile a quel monumentale livello di stupidità. La risposta standard all'accadere di quel genere di cose, lo sapevo, era di iniziare una "relazione" o di tagliare tutti i ponti. Avevo tentato entrambe le strade, in passato, con successi alterni, ma questa volta smettere di rivolgere la parola a una collega non era fattibile, e quanto alla possibilità di impegnarsi in una relazione amorosa… Anche se non fosse stato contrario al regolamento, ero un tipo che non trovava il tempo di farsi da mangiare, di dormire o di andare a comprare la carta igienica, per non dire che intanto brancolavo nel buio per quello che riguardava un'indagine e che c'era stato bisogno che venissero a salvarmi da un sito archeologico nel pieno della notte. Il pensiero di essere il fidanzato di qualcuna, con tutte le responsabilità e le complicazioni che la cosa comportava, mi faceva solo venire voglia di rannicchiarmi in un angolo a mettermi a frignare.