Ero così stanco che non sentivo più i piedi quando toccavano il marciapiede, mi sembrava che appartenessero a qualcun altro. Il vento mi soffiava sul viso una pioggerellina sottile e intanto pensavo, con un malsano e crescente senso di catastrofe, a tutte le cose che non avrei più potuto fare: rimanere alzato tutta la notte a ubriacarmi con Cassie, a parlare con lei delle donne che avevo conosciuto, dormire sul suo divano. Non ci sarebbe più stato modo di vederla come Cassie-e-solo-Cassie, una di noi anche se di aspetto molto più gradevole, non ora che l'avevo vista come l'avevo vista. Ogni luminoso angolo del nostro paesaggio comune si era trasformato in un oscuro terreno minato, carico di sfumature e implicazioni enormi e traditrici. Me la ricordavo, ed era stato solo qualche giorno prima, che pescava l'accendino dalla tasca del mio cappotto, mentre eravamo seduti nei giardini del Castello, senza interrompere quello che stava dicendo, con un gesto che mi era piaciuto per la sicurezza e la naturalezza che ci aveva messo.
So che suonerà incredibile dal momento che tutti, dai miei genitori a quell'idiota di Quigley, sembravano aspettarselo, ma io non avrei mai creduto che sarebbe successo. Dio, quanto fummo presuntuosi, incoscienti, arroganti, sicuri della nostra certezza di rappresentare un'eccezione alla regola più vecchia del mondo. Giuro che mi coricai innocente come un bambino, che Cassie rovesciò la testa per togliersi le mollette e che fece delle smorfie quando s'impigliarono nei capelli, che misi i calzini dentro le scarpe come facevo sempre perché lei non ci inciampasse la mattina dopo. So che direte che la nostra fu ingenuità voluta, ma se vi va di credere a una sola delle cose che vi racconto, credete a questa: nessuno dei due se lo sarebbe mai immaginato.
Quando arrivai a Monkstown, l'idea di tornare a casa mi sembrava ancora peregrina. Mi incamminai verso Dun Laoghaire e mi sedetti sul muretto alla fine del molo, a guardare le coppie di signorotti che facevano la loro passeggiata salutare della domenica pomeriggio, incontravano altre coppie ed emettevano urletti di gioia, fino a quando non fece buio e il vento non cominciò a infilarsi sotto il cappotto e un poliziotto di pattuglia non mi lanciò un'occhiata sospettosa. Non ho idea del perché, ma pensai di chiamare Charlie; non avevo, però, il suo numero sul cellulare e comunque non ero certo di sapere cosa dire.
Quella notte dormii come se mi avessero dato una botta in testa. Quando andai al lavoro, la mattina seguente (treno affollato di facce grigie e stanche, un tizio in tuta con la mascella pendula che mi sgranocchiava nelle orecchie patatine al formaggio e alla cipolla, tutto intento e con un'espressione bovina, e che mi veniva addosso ogni volta che il treno ripartiva), ero ancora intontito e con gli occhi gonfi, e la sala operativa mi parve strana, diversa per qualcosa che non riuscivo a identificare con esattezza. Era come se, attraverso una qualche fessura, fossi scivolato in una realtà parallela e ostile. Cassie aveva lasciato i documenti del vecchio caso sparpagliati sulla sua parte di scrivania. Mi sedetti e cercai di mettermi al lavoro, ma non riuscivo a concentrarmi. Quando arrivavo alla fine di una frase ne avevo dimenticato l'inizio e dovevo ricominciare da capo.
Entrò Cassie, con le guance arrossate dal vento e i riccioli scompigliati sotto un cappellino scozzese rosso. «Ciao» disse. «Come va?»
Mi passò dietro e mi arruffò i capelli. Non riuscii a evitarlo: sussultai e sentii la sua mano fermarsi a mezz'aria per una frazione di secondo.
«Bene» risposi.
Appese la borsa alla spalliera della sedia. Con la coda dell'occhio vedevo che mi guardava. Tenni la testa bassa. «Le cartelle cliniche di Rosalind e Jessica stanno arrivando al fax di Bernadette. Dice di andarle a prendere tra qualche minuto, e la prossima volta di dare il numero di fax della sala operativa. E tocca a te occuparti della cena. Ma ho solo del pollo, quindi se tu e Sam volete qualcos'altro…»
Il tono era noncurante, ma sotto sotto c'era un esile abbozzo di domanda. «Veramente» dissi, «non riesco a farcela per cena stasera. Ho un impegno.»
«Ah, okay.» Cassie si tolse il berretto e si passò le dita tra i capelli. «Allora magari una birra, se non finiamo tardi?»
«Stasera non posso proprio. Mi dispiace.»
«Rob» disse lei dopo un attimo, ma non sollevai lo sguardo. Per un attimo pensai che sarebbe andata avanti lo stesso, ma poi la porta si aprì e Sam entrò di slancio, fresco e baldanzoso dopo il suo weekend in campagna, con un paio di nastri registrati in una mano e un fascio di fax nell'altra. Non ero mai stato così felice di vederlo.
«Buongiorno, ragazzi. Questi sono per voi, con tanti saluti da Bernadette. Com'è andato il weekend?»
«Bene» rispondemmo in coro. Cassie si girò e andò ad appendere il giaccone.
Presi i fax da Sam e cercai di dargli un'occhiata veloce. La mia concentrazione era andata a farsi benedire. La calligrafia del medico dei Devlin era così involuta che sicuramente lo faceva apposta. Cassie invece mostrava un'insolita pazienza nell'aspettare che finissi ogni pagina, ma mi esasperava l'attimo di forzata vicinanza di quando si chinava a prenderla. Mi ci volle uno sforzo sovrumano per estrapolare gli elementi salienti.
Sembrava che Margaret fosse stata molto apprensiva quando Rosalind era piccola: visite mediche per ogni raffreddore o mal di gola, anche se Rosalind sembrava la bambina più sana della famiglia: nessuna malattia grave, nessun incidente. Jessica era stata in incubatrice per tre giorni quando lei e Katy erano venute al mondo, a sette anni si era rotta un braccio sulla pertica, a scuola, e dall'età di nove anni era sottopeso. Tutt'e due avevano avuto la varicella. Tutt'e due avevano fatto le vaccinazioni. Rosalind era stata operata per un'unghia incarnita l'anno prima.
«Niente sembra indicare abusi in famiglia o una sindrome di Münchhausen per procura» commentò Cassie. Sam aveva acceso il registratore. In sottofondo, Andrews stava sbraitando qualcosa contro un agente immobiliare.
Se non ci fosse stato lui, probabilmente l'avrei ignorata. «Ma niente sembra escluderli» dissi, accorgendomi io stesso di quanto fosse tesa la mia voce.
«Come si fa a escludere con sicurezza un abuso? L'unica cosa che possiamo dire è che sembra non ci siano prove, e infatti non ce ne sono. E comunque mi pare che possiamo escludere una Münchhausen. Come dicevo, Margaret non rientra nel profilo. Il punto con la Münchhausen è che porta a cure mediche. No, nessuno ha avuto una Münchhausen con le due ragazze.»
«E quindi è stato tutto inutile» dissi, spingendo via le cartelle cliniche con fin troppa forza. Metà delle pagine caddero dal tavolo e finirono sul pavimento. «Sorpresa sorpresa, siamo nella merda con questo caso. Lo eravamo fin dall'inizio. Possiamo anche archiviarlo subito e passare ad altro, qualcosa che abbia una qualche possibilità di soluzione, perché così perdiamo solo il nostro tempo, tutti.»
Le telefonate di Andrews erano finite e il registratore si arrestò con un sibilo che continuò, sortile ma insistente, fino a quando Sam non spense. Cassie si chinò a raccogliere le pagine dei fax cadute a terra. Nessuno disse più nulla per un tempo molto lungo.