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Mi chiesi cosa pensasse Sam. Non aveva detto niente ma doveva aver intuito che qualcosa non andava, non poteva non essersene accorto: d'un tratto, le serate cameratesche a tre erano cessate e l'atmosfera nella sala operativa sembrava uscita da un libro di Sartre. Poteva essere che Cassie a un certo punto gli avesse raccontato tutta la storia e che avesse pianto sulla sua spalla, ma ne dubito, era troppo orgogliosa, sempre. Credo che probabilmente continuava a invitarlo a cena dicendo che io reagivo male al fatto di dovermi occupare dell'omicidio di una ragazzina, cosa tutto sommato vera, e che avevo bisogno di starmene solo la sera, per scaricarmi. Forse lo diceva in modo così naturale e convincente che, se anche non le credeva, Sam capiva che non era il caso di fare domande.

Credo che anche altre persone l'avessero notato. I detective tendono a essere parecchio osservatori, e il fatto che i Gemelli Prodigio non si rivolgessero più la parola era di certo sulla bocca di tutti. Doveva essere diventato di dominio pubblico nel giro di ventiquattr'ore, con tutta una serie di squallide spiegazioni tra le quali non era escluso che qualcuna corrispondesse alla verità.

O forse no. Nonostante tutto, almeno questo rimaneva della vecchia alleanza: l'istinto animale, condiviso, di nascondere la sofferenza. In un certo senso, era la cosa più straziante di tutte: fino alla fine, il vecchio legame c'era sempre quando serviva. Riuscivamo a passare ore e ore snervanti senza rivolgerci parola a meno che non fosse inevitabile. E anche allora, voci inespressive, sguardi fugaci. Ma non appena O'Kelly minacciava di toglierci Sweeney e O'Gorman ci riprendevamo immediatamente, io elencando tutte le buone ragioni per cui avevamo ancora bisogno di agenti di supporto e Cassie sostenendo con me che il capo della polizia sapeva il fatto suo e sperando, con un'alzata di spalle, che la cosa non saltasse fuori con i giornalisti. Mi risucchiava tutta l'energia. Quando la porta si chiudeva e restavamo di nuovo soli, o con Sam, il quale non contava, quella scintilla ben nota evaporava e mi giravo impassibile dall'altra parte per non guardarla in faccia, pallida e sconcertata, voltandole le spalle con il rigido distacco di un gatto offeso.

Cercate di capire, sentivo davvero, anche se non mi è chiaro come la mia mente fosse arrivata a una conclusione del genere, di essere stato tradito in modo subdolo e imperdonabile. Se fosse stata lei a ferirmi, l'avrei perdonata senza neanche pensarci. Non le perdonavo, invece, di essersi lasciata ferire.

I risultati delle analisi ematiche – le macchie sulle mie scarpe e la goccia sulla pietra d'altare – sarebbero arrivati nel giro di poco. Nonostante la bruma stupefatta e sottomarina nella quale mi sembrava di navigare, quella era una delle poche cose che avevo chiare in mente. Ogni altro punto di riferimento era crollato, bruciato. Questo era quanto mi restava e mi ci aggrappavo con una sorta di tetra e monomaniacale disperazione. Ero certo, con una sicurezza che andava ben oltre ogni logica, che avevamo bisogno semplicemente di una corrispondenza del DNA. Che se l'avessimo trovata tutti gli altri pezzi sarebbero andati a posto con la soffice e misurata precisione dei fiocchi di neve e il caso, entrambi i casi, si sarebbero dispiegati davanti ai miei occhi, perfetti e abbaglianti.

Mi rendevo vagamente conto del fatto che, se ciò fosse avvenuto, avremmo avuto bisogno del DNA di Adam Ryan per il confronto e che il detective Rob sarebbe con ogni probabilità svanito per sempre in una nuvola di fumo olezzante di scandalo. La cosa, però, non mi sembrava poi così grave. C'erano anzi dei momenti in cui, con una specie di cupo sollievo, non vedevo l'ora che accadesse. Poiché sapevo di non avere né le palle né l'energia per cavarmi fuori da quell'incredibile casino, mi sembrava l'unica via d'uscita o, per lo meno, la più semplice.

Sophie, la quale crede nella multifunzionalità dell'essere umano, mi telefonò dall'auto. «Hanno chiamato quelli del DNA» mi disse. «Cattive notizie.»

«Come sarebbe?» esclamai, raddrizzandomi e facendo ruotare la sedia per dare le spalle agli altri. «Cosa hanno detto?» Cercavo di mantenere un tono normale, ma O'Gorman smise di fischiettare e Cassie mise giù il documento che stava esaminando.

«Quei campioni di sangue sono inutilizzabili. Tutti e due, quello sulle scarpe e quello che ha trovato Helen.» Sentii che suonava il clacson. «Imbecille, ma dove cazzo vai?… Scegli una corsia, per Dio!… In laboratorio hanno provato di tutto, ma i campioni erano troppo degradati per ricavarne il DNA. Mi dispiace, ma non dire che non ti avevo avvertito.»

«Già» risposi, dopo una pausa. «È un caso che va così. Grazie, Sophie.»

Riattaccai e rimasi a guardare il telefono. Cassie, dall'altro lato della scrivania, chiese esitante: «Cos'ha detto?», ma io non risposi.

Quella sera, tornando a casa con il treno, chiamai Rosalind. Andava contro ogni mio istinto. Avrei voluto con tutte le mie forze lasciarla in pace fino quando non se la fosse sentita di parlare, lasciarle scegliere il momento invece che metterla con le spalle al muro, ma non avevo alternativa. Mi rimaneva solo lei.

Venne il giovedì mattina e scesi a prenderla alla reception, così come avevo fatto la prima volta, svariate settimane prima. Una parte di me temeva che cambiasse idea all'ultimo momento e non si presentasse. Provai quindi un grande sollievo quando la vidi seduta con aria pensosa, una guancia appoggiata a una mano e una lunga sciarpa rosa. Era bello vedere una persona giovane e graziosa. Non mi ero reso conto, fino a quel momento, di quanto grigi ed esausti fossimo diventati tutti noi. La sua sciarpa mi sembrò la prima nota di colore che mi colpisse da giorni a quella parte.

«Rosalind» chiamai, e il suo viso si illuminò.

«Detective Ryan!»

«Mi è venuto in mente soltanto adesso» dissi, «ma tu non dovresti essere a scuola?»

Mi lanciò uno sguardo cospiratorio. «I miei insegnanti stravedono per me, non mi faranno problemi.» Sapevo che avrei dovuto farle una ramanzina, dirle che era sbagliato saltare la scuola, ma non riuscii a non mettermi a ridere.

La porta dell'atrio si aprì e comparve Cassie. Si stava infilando il pacchetto delle sigarette nella tasca dei jeans. I nostri sguardi s'incrociarono per un attimo, lei lanciò un'occhiata a Rosalind, ci sfiorò e passò oltre, verso le scale.

Rosalind si morse il labbro e mi guardò, con aria preoccupata. «Alla sua collega dà fastidio che sia venuta qui, vero?»

«Be', non sono affari suoi» risposi. «Mi dispiace per il suo comportamento.»

«Oh, non importa» Rosalind sorrise debolmente. «Non le sono mai piaciuta, vero?»

«Il detective Maddox non ha nulla contro di te.»

«Non si preoccupi, detective Ryan, davvero. Ci sono abituata. Non piaccio a molte ragazze. Mia madre dice…» Abbassò la testa, imbarazzata. «Mia madre dice che è perché sono gelose, ma io non capisco come sia possibile.»

«Io invece sì» le dissi, sorridendo. «Ma non credo sia il caso del detective Maddox. Non ha niente a che vedere con te, okay?»

«Avete litigato?» domandò timidamente, dopo un attimo.

«Più o meno» risposi. «È una lunga storia.»

Tenni la porta aperta per farla passare, poi attraversammo l'acciottolato per andare verso i giardini. Rosalind aveva la fronte aggrottata. «Vorrei non starle così antipatica. L'ammiro molto, davvero. Non dev'essere facile per una donna fare il detective.»

«Non è facile in generale» dissi. Non avevo voglia di parlare di Cassie. «Ma ce la caviamo.»

«Sì, ma per una donna è diverso» obiettò, con un leggero tono di rimprovero.

«In che senso?» Era così giovane e diretta. Sapevo che si sarebbe offesa se mi fossi messo a ridere.

«Be', per esempio… il detective Maddox avrà almeno trent'anni, no? Vorrà sposarsi, avere figli, quelle cose lì. Le donne non possono permettersi di aspettare, come gli uomini. E facendo il detective non dev'essere facile avere una relazione seria, no? Credo che senta un po' di pressione.»