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Provai una fastidiosa stretta di disagio allo stomaco. «Non credo che il detective Maddox sia un tipo materno» osservai.

Rosalind parve turbata, si mordicchiò il labbro inferiore con i piccoli denti bianchi. «Forse ha ragione» disse, cauta. «Ma sa, detective Ryan… a volte, quando siamo molto vicini a qualcuno, ci sono cose che ci sfuggono. Gli altri le vedono, noi no.»

Lo stomaco mi si contorse ancora di più. Una parte di me avrebbe voluto farla continuare con quel discorso, chiederle cosa aveva visto esattamente in Cassie che io non ero riuscito a vedere. Ma la settimana appena trascorsa mi aveva fatto capire con grande chiarezza che ci sono cose nella vita che è meglio non sapere. «La vita privata del detective Maddox non mi riguarda» dissi. «Rosalind…»

Ma lei era schizzata giù per uno dei vialetti, fin troppo curati per sembrare naturali, che si inoltrano in tante curve attraverso il prato. «Oh, guardi, detective Ryan, guardi! Non è bellissimo?»

I capelli le danzavano nel sole che filtrava dalle foglie e nonostante tutto mi venne da sorridere. La seguii. Ci serviva comunque un posto appartato per la nostra conversazione. La raggiunsi presso una panchina protetta dai rami, circondata da uccelli che cinguettavano nei cespugli lì intorno. «Sì, è bellissimo. Vuoi che parliamo qui?»

Si sedette sulla panchina e sollevò lo sguardo verso gli alberi con un piccolo sospiro di gioia. «Il nostro giardino segreto.»

Era una scena idilliaca e non mi andava di rovinarla. Per un attimo mi trastullai con l'idea di lasciar perdere l'obiettivo dell'incontro e di fare semplicemente una chiacchierata su come stava e su quanto fosse bella quella giornata e rimandarla a casa. Di essere, per qualche minuto, solo un ragazzo seduto al sole a parlare con una bella ragazza.

«Rosalind» cominciai, «devo chiederti una cosa. Non sarà piacevole, e vorrei tanto che ci fosse un altro modo per renderti le cose più semplici, ma temo non ci sia. Ho bisogno del tuo aiuto. Vuoi provarci?»

Il suo volto fu per un attimo attraversato da un'intensa emozione che sparì prima che riuscissi a metterla a fuoco. Strinse con forza le mani, aggrappandosi alla panchina. «Farò quello che potrò.»

«Tuo padre e tua madre» dissi, cercando di mantenere un tono rassicurante e garbato, «hanno mai fatto del male a te, o a tua sorella?»

Rosalind rimase senza fiato. Si portò la mano alla bocca di scatto e mi guardò, con gli occhi sgranati, finché non si rese conto di quello che aveva fatto. Quindi si tolse immediatamente la mano dal viso e strinse di nuovo la panchina. «No» rispose, con una vocina compressa e agitata. «Certo che no.»

«So che hai paura, ma posso proteggerti. Te lo prometto.»

«No.» Scosse la testa e si morse un labbro. Capii che era sull'orlo delle lacrime. «No.»

Mi chinai verso di lei e misi le mani sopra le sue. Aveva un profumo floreale, muschiato, vecchio di decenni per lei. «Rosalind, se qualcosa non va, dobbiamo saperlo. Sei in pericolo.»

«Va tutto bene.»

«Ed è in pericolo anche Jessica. So che ti prendi cura di lei, ma non puoi continuare a farlo da sola per sempre. Lascia che ti aiuti.»

«Lei non capisce» mormorò. La mano le tremava sotto la mia. «Non posso, detective Ryan. Non posso e basta.»

Quasi mi spezzò il cuore. Quella fragile, indomita ragazzina, in una situazione che avrebbe schiacciato persone con il doppio dei suoi anni, si teneva in piedi con le unghie e con i denti, in bilico su una corda di tenacia, orgoglio e rifiuto. Non le restava nient'altro ed ero io, proprio io, quello che stava tentando di spingerla giù.

«Mi dispiace» dissi, vergognandomi improvvisamente di me stesso. «Forse arriverà il momento in cui sarai pronta per parlarne e quando accadrà sarò lì con te. Ma fino ad allora… non avrei dovuto cercare di forzarti, perdonami.»

«Lei è così gentile con me» mormorò. «Non riesco a credere che possa essere così gentile.»

«Vorrei solo poterti aiutare» dissi. «Vorrei tanto conoscerti.»

«Io… io non mi fido facilmente delle persone, detective Ryan. Ma se dovessi fidarmi di qualcuno, mi fiderei di lei.»

Restammo lì seduti, in silenzio. La mano di Rosalind era morbida, sotto la mia, e lei non la ritraeva. Un uccellino, forse uno scricciolo, saltellò sul sentiero a pochi passi da noi. Lo guardammo lottare a lungo, scena assurda, con uno scarabeo di gran lunga troppo grosso per il suo becco. Alla fine rinunciò e volò di nuovo via tra i cespugli.

Rosalind girò la mano, lentamente, e intrecciò le dita con le mie. Mi sorrideva, e quel sorriso aveva un che di intimo e leggero, recava in fondo in fondo una specie di sfida nascosta.

Trattenni il respiro. Fu come una scossa elettrica. Come avrei voluto chinarmi su di lei, metterle una mano sulla nuca e baciarla. Immagini si affollarono nella mia mente – lenzuola d'albergo fragranti, quei riccioli che si scioglievano, bottoni tra le mie dita, il viso teso di Cassie. Desideravo quella ragazza, diversa da ogni altra che avevo conosciuto. La desideravo non a dispetto dei suoi cambi d'umore, delle sue ferite segrete, dei suoi goffi tentativi di nasconderle, ma proprio per tutte quelle cose. Mi vedevo riflesso nei suoi occhi, piccolo e abbagliato e sempre più vicino.

Aveva diciotto anni e poteva ancora darsi che fosse il mio unico testimone. Era nel momento di maggiore vulnerabilità di tutta la sua vita e per lei ero un idolo. Non meritava di scoprire nel modo peggiore il mio talento nel mandare sempre tutto a puttane. Mi morsi con forza l'interno della guancia e districai le dita dalle sue.

«Rosalind…»

Fu come se il suo viso si chiudesse. «Adesso devo proprio andare» disse con freddezza.

«Non voglio ferirti. È l'ultima cosa di cui hai bisogno.»

«Be', invece è proprio quello che ha fatto.» Si mise la borsa sulla spalla, senza guardarmi. La bocca era diventata una linea sottile.

«Rosalind, per favore aspetta…» Cercai di prenderle la mano ma la ritrasse con foga.

«Credevo che le importasse qualcosa di me. Evidentemente mi sbagliavo. Ha lasciato che lo pensassi solo perché voleva vedere se sapevo qualcosa di Katy. Voleva prendersi quello che le serviva, come tutti gli altri.»

«Non è vero» cominciai, ma se n'era già andata a passettini svelti e rabbiosi per il sentiero. Sarebbe stato inutile andarle dietro. Gli uccelli nei cespugli volavano via al suo passaggio con un gran frullio d'ali.

Mi girava la testa. Le detti qualche minuto per calmarsi, poi la chiamai sul cellulare, ma non rispose. Le lasciai un messaggio di balbettanti scuse sulla segreteria telefonica, poi riattaccai e mi lasciai cadere di nuovo sulla panchina.

«Merda» dissi ad alta voce, ai cespugli.

Credo sia importante sottolineare di nuovo, nonostante quello che potrei aver già sostenuto, che per la maggior parte dell'Operazione Vestale non fui assolutamente in uno stato d'animo che si potesse definire normale. Non è una scusante, ma di sicuro è un dato di fatto. Quando andai in quel bosco, per esempio, ci andai senza aver dormito, avendo mangiato ancora meno e con sulle spalle molta tensione accumulata e in corpo tanta vodka, e credo di dover precisare anche che è assolutamente possibile che gli eventi successivi siano stati un sogno o una specie di strana allucinazione. Non posso saperlo, non riesco a pensare a una risposta che possa essere rassicurante in un senso o nell'altro.

I ricordi e gli effetti collaterali più bizzarri sparirono, dopo quella notte nel bosco, si spensero definitivamente come una lampadina fulminata. Potreste pensare che fosse un sollievo, e sul momento, effettivamente, lo fu: per me ogni cosa che riguarda Knocknaree è comunque foriera di eventi terribili. Sto molto meglio senza. Avrei dovuto tenerlo ben presente, immagino, e non riesco a credere di essere stato così idiota da ignorarlo e andarmene a spasso spavaldo in quel bosco. Non ce l'ho mai avuta così tanto con me stesso. Fu solo molto tempo dopo, quando il caso fu chiuso e la polvere si fu posata sulle rovine, quando mi risospinsi nuovamente ai limiti della mia memoria senza trovarci nulla, che cominciai a pensare che non fosse stata una liberazione ma una grande occasione perduta, una perdita definitiva e devastante.