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Tra l'altro, riuscivo di nuovo a dormire, e raggiungevo un livello di concentrazione talmente intenso da rendermi nervoso. La sera, quando tornavo dal lavoro, ero praticamente un sonnambulo. Crollavo sul letto come attratto da una potente calamita e mi ritrovavo nella stessa posizione, ancora vestito, quando la sveglia mi riportava alla vita reale dodici o tredici ore dopo. Una volta dimenticai di puntarla e mi svegliai alle due del pomeriggio, alla settima telefonata di una furibonda Bernadette.

Sognai una sola volta, quella settimana. Ero a Cnosso, un posto che avevo visto solo nei libri e nei documentari. Cercavo una ragazza, abbronzatura dorata, sacco a pelo, treccia resa ancora più bionda dal sole e lunghe gambe nervose come quelle di un puledro. «Ci siamo distratte solo per un attimo» balbettavano le sue amiche tra le lacrime, «e l'attimo dopo era scomparsa.» Ma adesso erano altrove e il labirinto era vuoto. Il cielo era così azzurro da sembrare quasi bianco. Un rapace si librava pigro su in alto, minuscolo per la distanza. Colonne spezzate nude sotto il sole, pietre che scintillavano nella caligine del cielo cretese, cicale che frinivano, un toro che muggiva tra gli ulivi dalle foglie scure… E tutt'intorno un silenzio ineffabile.

Correvo per vasti cortili e giù per scalinate di pietra fredde e sotterranee, tra giare panciute di terracotta alte come un uomo e pareti incise con asce bifronti. Chiamavo la ragazza ad alta voce, ripetutamente. La mia voce rimbalzava nel silenzio e veniva inghiottita dalle sue profondità senza lasciare traccia. Era una ragazza americana, una di quelle sfrontate ragazzine di provincia che con un lavoretto estivo, dopo il liceo, comprano un biglietto di sola andata e baciano tutti quelli che le dicono "ciao". Avrei voluto che Cassie fosse lì ad aiutarmi e mi chiedevo se per caso non stesse arrivando, ma poi mi ricordavo: era annegata, molto tempo prima, braccio sottile che si protendeva nell'acqua fredda e verde, e quelle perle erano i suoi occhi.

Affreschi pieni di crepe: delfini e rondini, tori dipinti con maestria, colti a metà di un balzo. Ero a piedi scalzi, le piante come cuoio, tanto che sentivo appena il terreno bollente. Dall'ombra di un trono di pietra scura che il tempo aveva reso lucido, qualcuno sussurrava il mio nome.

Il venerdì mattina, Sam e io fummo i primi ad arrivare in sala operativa. Avevo preso l'abitudine di arrivare prima che potevo per esaminare le chiamate ricevute e vedere di trovare una scusa per passare la giornata altrove. Pioveva forte. Cassie era probabilmente da qualche parte a imprecare contro la Vespa che non si metteva in moto.

«Notizie fresche» disse Sam, sventolandomi davanti agli occhi un paio di nastri. «Era loquace ieri sera, otto chiamate se Dio vuole…»

Era ormai una settimana che tenevamo sotto controllo il cellulare di Andrews e anche il telefono di casa, con risultati che cominciavano a produrre sinistri brontolii di disapprovazione da parte di O'Kelly. Di giorno, Andrews usava molto il cellulare, con chiamate veloci e cariche di testosterone, ma Sam, che ormai ne sapeva abbastanza di gestione immobiliare da potersi lanciare in un redditizio secondo lavoro, diceva che era tutta roba perfettamente legale. Affari a volte vagamente sordidi ma nulla che non fosse lecito aspettarsi. Di sera, si faceva portare costosi manicaretti da buongustaio dal Restaurant Express. "Rosticceria di lusso" la definiva sprezzante Sam. A volte chiamava la sua segretaria, che aveva una voce acuta e stizzosa, con quell'orribile accento strozzato che in questo paese viene contrabbandato per elegante. La chiamava a casa a ore impossibili e la metteva in croce per qualche documento. Una sera lei aveva reagito, esasperata, e aveva sgridato Andrews come farebbe una professoressa con un alunno: lui aveva fatto marcia indietro in modo quasi ridicolo, balbettando scuse da ubriaco. Una volta aveva anche chiamato una di quelle chat line a luci rosse di cui fanno la pubblicità la sera tardi in TV. Gli piaceva essere sculacciato, a quanto sembrava, e la frase "fammelo tutto rosso, Celestina" era immediatamente diventata un tormentone che aveva fatto il giro di tutta la squadra.

Mi tolsi il cappotto e mi sedetti. «Suonala ancora, Sam» dissi. Il mio senso dell'umorismo era peggiorato nelle ultime settimane, come d'altronde tutto il resto. Sam mi lanciò un'occhiata e mise uno dei nastri nel nostro obsoleto registratore.

Alle 20.17, ora del computer, Andrews aveva ordinato lasagne con salmone affumicato, pesto e salsa di pomodorini secchi. «Mio Dio» commentai, allibito.

Sam rise. «Solo il meglio per il nostro ragazzo.»

Alle 20.23 aveva chiamato suo cognato per mettersi d'accordo per una partita di golf la domenica pomeriggio, conversazione punteggiata da diverse battute di spirito. Alle 20.41, di nuovo il ristorante per sbraitare contro chi aveva preso l'ordinazione perché la sua cena non era ancora arrivata. Aveva chiesto di parlare con il direttore e aveva minacciato di fare licenziare la dipendente per la sua incompetenza. Il tono cominciava a essere quello di un ubriaco. Poi dovevano essere arrivate le lasagne, perché seguiva un periodo di silenzio.

Alle 00.08 aveva chiamato un numero di Londra, la sua ex moglie, spiegò Sam. Aveva la sbronza triste e voleva parlare con lei di cosa era andato storto tra di loro. «Lasciarti andare, Dolores, è stato il più grande errore della mia vita» le diceva, con la voce soffocata dalle lacrime. «Però forse ho fatto la cosa giusta. Sei una donna meravigliosa, lo sai, vero? Eri troppo perfetta per uno come me, troppo perfetta. Vero, Dolores? Non credi che tutto sommato io abbia fatto la scelta giusta?»

«Non lo so, Terry» rispondeva stancamente Dolores, «dimmelo tu». Si sentiva dai rumori di sottofondo che stava facendo qualcos'altro mentre parlava, sparecchiava o svuotava una lavastoviglie. Si udiva un rumore di piatti. Alla fine, quando Andrews si era proprio messo a piangere, lei aveva riattaccato. Due minuti dopo lui l'aveva richiamata, ringhiando: «Non ti permettere mai più di sbattermi il telefono in faccia, puttana che non sei altro, hai capito? Sono io, semmai, che ti chiudo il telefono in faccia!» e aveva riattaccato lui.

«Proprio un gentiluomo» commentai.

«Un vero coglione» rincarò Sam. Sprofondò nella poltroncina rovesciando la testa all'indietro e mettendosi le mani in faccia. «Un grandissimo coglione. Mi resta solo una settimana, e che cazzo faccio se andiamo avanti così, a pizza, sushi e cuori infranti?»

Il nastro fece un altro bip. «Pronto?» disse una profonda voce maschile, con tono assonnato.

«Chi è che parla?» chiesi.

«Numero di cellulare sconosciuto» disse Sam, senza togliersi le mani dalla faccia. «Un quarto alle due.»

«Piccolo pezzo di merda» disse Andrews, sul nastro. Era molto ubriaco. Sam si raddrizzò sulla sedia.

Ci fu una breve pausa. Poi la voce profonda disse: «Sbaglio o ti avevo detto di non chiamarmi più?»

«Wow» commentai.

Sam fece un verso disarticolato. Allungò la mano come per afferrare il registratore, ma si trattenne e si limitò ad avvicinarlo a noi. Chinammo la testa, per ascoltare meglio. Sam tratteneva il respiro.

«Non me ne frega un beato cazzo di quello che mi hai detto.» La voce di Andrews si alzò di tono. «Mi hai detto un sacco di stronzate. Mi avevi detto che si sarebbe sistemato tutto, te lo ricordi questo? Invece ci sono tutte quelle cazzo di… citazioni…»

«Ti ho già detto di darti una calmata e lasciare che sia io a sistemare tutto, e te lo ripeto: è tutto sotto controllo.»

«Tutto sotto controllo un cazzo! Non ti permettere di parlarmi in questo modo, come se fossi un tuo sca… sca… scagnozzo di merda. Lo scagnozzo sei tu, cazzo. Sono io che ti pago. Migliaia e migliaia di cazzo di… "Oh ci vogliono altri cinque testoni per questo, Terry, e qualche altro testone per il nuovo assessore, Terry…" Tanto valeva che li buttassi nel cesso. Se tu fossi un mio dipendente ti avrei già dato un calcio nel culo, senza tante storie.»