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John Varley

Nel segno di Titano

PROLOGO

La più bella delle belle

Isolata nel suo splendore, Gea ruotava su se stessa da tre milioni di anni.

Di coloro che abitavano dentro di lei, alcuni sapevano che esisteva uno spazio molto più vasto, all’esterno della sua grande ruota. Assai prima della creazione degli angeli, esseri alati si erano spinti tra le altissime volte dei suoi raggi, avevano guardato dalle finestre superiori e avevano conosciuto la forma del loro dio. E in nessun punto di quell’oscurità erano giunti a scorgere un’altra Gea.

Era l’ordine naturale delle cose.

Dio era il mondo, il mondo era una ruota, e la ruota era Gea.

Gea non era un dio geloso.

Nessuno aveva l’obbligo di adorarla, e a nessuno era mai venuto in mente di farlo. Non chiedeva sacrifici, né templi, né cori che cantassero le sue lodi. Le bastava l’energia solare che si poteva trovare nell’orbita di Saturno. Aveva sorelle sparse per tutta la Galassia, anch’esse divine, ma la distanza da Gea impediva la nascita del politeismo. La conversazione tra loro richiedeva secoli alla velocità della luce. E aveva alcune figlie nell’orbita di Urano. Anch’esse erano dee per coloro che abitavano al loro interno, ma nessuno si curava di loro. Gea era il supremo dei titani, la più bella delle belle.

Per i suoi abitanti, Gea non era un concetto lontano. Era perfettamente visibile. Si poteva parlare con lei. Per farlo, bastava arrampicarsi per seicento chilometri: un viaggio spaventoso, ma fattibile. Metteva il Cielo a disposizione di coloro che avevano sufficiente coraggio. In media, Gea aveva una visita ogni mille anni.

Pregare Gea era inutile. Non aveva il tempo di ascoltare tutti coloro che stavano dentro di lei, e non ne aveva neppure voglia. Parlava soltanto agli eroi. Era un dio di carne e di sangue, che aveva come ossa la terra, un dio dai cuori massicci e dalle arterie grandi come caverne, che nutriva la sua gente con il proprio latte: un latte che non era dolce, ma che non mancava mai.

All’epoca in cui sulla Terra si costruivano le piramidi, Gea aveva notato in se stessa qualche cambiamento. Il suo centro cosciente era collocato nel mozzo centrale della ruota, ma, come succedeva ai dinosauri della Terra, il suo cervello era decentralizzato, per fornire un’autonomia locale a certe sue funzioni prosaiche. Il sistema le evitava di doversi occupare di un’infinità di piccoli particolari trascurabili, e aveva sempre funzionato bene. Sull’immensa circonferenza del suo bordo erano collocati dodici cervelli-satelliti, ciascuno dei quali si occupava della propria regione. Tutti riconoscevano la sovranità di Gea: anzi, all’inizio non era esatto parlare di questi cervelli-vassalli come di entità diverse da lei.

Il nemico di Gea era il tempo. Gea conosceva bene la morte, i suoi processi e i suoi stratagemmi, e non la temeva. Un tempo, lei non esisteva, e in futuro, un altro simile tempo era destinato a ritornare. Era una semplice suddivisione dell’eternità in tre parti uguali.

E sapeva che anche i titani andavano soggetti alla demenza senile: aveva ascoltato i deliri e le allucinazioni di già tre delle sue sorelle, che poi erano rimaste silenziose per sempre. Ma non sapeva dove e come l’avrebbe tradita, il suo corpo ormai invecchiato. E quando i cervelli regionali cominciarono a opporsi alle sue direttive, Gea rimase profondamente stupita, come un uomo che si vedesse strangolare dalle sue stesse mani.

Tre milioni di anni di supremazia non avevano certo insegnato a Gea le sottili arti del compromesso. Forse sarebbe riuscita a vivere in pace con i suoi cervelli regionali, se avesse ascoltato le loro rimostranze. Tuttavia, due delle regioni erano impazzite, e una terza era animata da una tale malvagità da rasentare la follia. Per un centinaio di anni, la grande ruota di Gea fu agitata dalle tensioni della guerra. Quelle epiche battaglie rischiarono di distruggerla e comportarono gravissime perdite tra le genti che la abitavano, e che erano inermi come gli indu di fronte agli dèi del mito vedico.

Non c’erano figure titaniche a percorrere la curva della ruota di Gea, scagliando folgori e sollevando montagne. Gli dèi di questa lotta erano gli stessi territori. La ragione svanì: inghiottita dalla terra, sommersa dai fuochi discesi dai raggi. Sparirono senza lasciare tracce civiltà vecchie di centomila anni, e altre precipitarono nella barbarie.

Le dodici regioni in cui era divisa Gea erano troppo capricciose e ostinate per allearsi contro di lei. L’alleato più fedele rimase sempre il territorio di Iperione; Oceano il suo implacabile nemico. Si trovavano l’uno accanto all’altro, ed entrambi furono devastati prima che la guerra si trasformasse in una tregua armata.

Ma, come se ribellione e guerra non fossero una sciagura sufficiente per una vecchia divinità, si stavano avvicinando altri guai. In un battito di ciglia, le onde elettromagnetiche si riempirono di ogni sorta di strani rumori. Dapprima Gea la considerò un’altra prova di debolezza di mente: quelle voci impossibili che venivano dallo spazio dovevano essere una sua forma di allucinazione. Ma poi capì, e divenne un’ascoltatrice assidua. Se ci fosse stato un servizio postale con la Terra, avrebbe partecipato a tutti i concorsi, avrebbe mandato le etichette per ricevere il premio fedeltà.

L’avvento della televisione la colpì con altrettanta intensità. Come era già successo nei giorni pionieristici della radio, per molti anni, gran parte delle trasmissioni era americana, ed era quella che le piaceva di più. Si appassionò ai telefilm e rispose anche lei al programma La domanda da 64.000 dollari, per poi scandalizzarsi come tutti alla notizia che le domande erano truccate. Guardava tutti i programmi, cosa che forse non facevano neppure i produttori.

Guardava i film, e guardava i telegiornali. Con la proliferazione elettronica venuta dopo il 1980, furono trasmesse intere biblioteche, e a quel punto i suoi studi sugli esseri umani divennero qualcosa di più che un esercizio accademico. Osservando la missione di Neil Armstrong, i suoi sospetti ebbero conferma. Da un momento all’altro, gli umani sarebbero arrivati fino a lei.

Cominciò a fare qualche preparativo per incontrarli. Le prospettive non erano molto buone. Gli uomini erano una razza bellicosa, e possedevano armi capaci di vaporizzare Gea. Avrebbero certo preso qualche provvedimento, nel constatare la presenza, nel «loro» Sistema Solare, di una ruota-dio, viva e larga 1300 chilometri. Aveva ascoltato la trasmissione di Orson Welles del 1938. Aveva visto Il cittadino dello spazio e Ho sposato un mostro venuto dallo spazio.

Tutti i suoi progetti andarono in fumo quando Oceano, sempre ansioso di interferire con i suoi programmi, distrusse il VSI Ringmaster, primo vascello spaziale interplanetario giunto fino a lei. Ma le preoccupazioni di Gea si dimostrarono esagerate. La seconda nave, benché armata e pronta a distruggerla, le lasciò il tempo di spiegarsi. In questo, Gea fu aiutata dai superstiti della prima spedizione. Scese su Gea una missione diplomatica, e tutti fecero finta di ignorare la presenza della nave, che si era fermata a distanza di sicurezza e che non si sarebbe mai più allontanata. Gea non se ne preoccupò. Lei non aveva la minima intenzione di provocare i terrestri, col rischio che sganciassero le loro bombe, e, quanto a Oceano, non poteva arrivare molto lontano.

Dapprima arrivarono gli scienziati. E poi i turisti. Gea lasciava scendere chiunque, purché firmasse una dichiarazione in cui la liberava da ogni responsabilità.

Dopo qualche tempo, Gea fu riconosciuta dal governo svizzero e le fu concessa una rappresentanza consolare a Ginevra. L’esempio fu seguito da altre nazioni, e nel 2050 divenne membro con diritto di voto delle Nazioni Unite.

Gea si proponeva di trascorrere i suoi ultimi anni studiando le infinite sfaccettature della specie umana. Ma sapeva che, per essere al sicuro, doveva rendersi indispensabile alla razza umana, e nello stesso tempo non doveva farsi monopolizzare da alcuna nazione.