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Robin entrò nella stanza delle docce e si tolse la tuta. C’era una donna, seduta sulla panca che stava in mezzo alle due file di armadietti, e si asciugava i capelli. In fondo alla stanza ce n’era una seconda, intenta a bagnarsi la faccia. Robin infilò la tuta nel suo armadio e prelevò Nasu, che era rimasto chiuso nel cassetto. Nasu era il suo «demone familiare», un anaconda di 110 centimetri. Il serpente le si arrotolò attorno al braccio e dardeggiò la lingua: il caldo e l’umido dello stanzone gli piacevano.

— Anche a me — disse Robin. Si avviò verso la doccia, senza badare alla donna che, con la coda dell’occhio, le guardava il tatuaggio. I due serpenti vivacemente colorati erano abbastanza comuni nella Congrega, dove tutti si tatuavano. Il disegno che aveva sul ventre, invece, non lo aveva nessun’altra.

Non appena finì il primo forte scroscio di acqua fredda, ci fu un grande rimescolio nei tubi, e dalla doccia non scese più niente. La donna accanto a Robin emise un gemito. Robin saltò fino al tubo sopra di lei, lo afferrò a due mani e cercò di svitarlo. Poi si lasciò cadere a terra e strillò. La sua compagna le fece eco, e presto si unì a loro anche la donna seduta. Robin ci si mise d’impegno, cercando, come faceva in ogni sua azione, di gridare più forte delle altre. Presto tutte si misero a tossire e a ridere, e Robin si accorse che qualcuno la chiamava.

— Sì, cosa c’è? — Vide una donna che non conosceva bene, e che doveva chiamarsi Zynda: si affacciava nello stanzone.

— La navetta ha portato una lettera per te.

Robin rimase a bocca aperta per la sorpresa, e per qualche istante non seppe che dire. Le lettere erano rare nella Congrega, i cui membri, complessivamente, non conoscevano più di cento persone al di fuori della colonia. La posta era in genere costituita di merci ordinate per corrispondenza, e di solito arrivava dalla Luna. Quella lettera poteva significare una sola cosa.

Corse a prenderla.

Era il nervosismo, e non la malattia, a farle tremare le mani mentre apriva la leggerissima busta bianca. Il francobollo con il canguro era timbrato «Sydney», e la lettera era indirizzata a «Robin dalle Nove Dita, La Congrega, Lagrange 2». L’indirizzo del mittente era impresso a stampa e diceva: «Ambasciata di Gea, Old Opera House, Sydney, Nuova Galles del Sud, Australia, AS109-348, Indo-Pacifica». Da quando Robin aveva scritto, era passato quasi un anno.

Riuscì infine ad aprirla e lesse:

Cara Robin,

scusa il ritardo.

La tua disgrazia mi ha profondamente commosso, anche se forse non dovrei dirlo, dopo che mi hai fatto chiaramente capire che non cerchi la commiserazione di nessuno. Meglio così, perché Gea non dà mai niente per niente.

Mi ha detto che desidera vedere rappresentanti delle religioni della Terra. Ha anche parlato di un gruppo di streghe in orbita. Pareva una cosa alquanto improbabile, ma poi è arrivata la tua lettera, come per l’intervento di una provvidenza divina. Forse la tua divinità ci ha messo lo zampino; adesso che ci penso, la mia ce lo ha messo sicuramente.

Dovresti prendere il primo mezzo di trasporto disponibile. Ti prego di riferirmi poi com’è andata.

Con i miei migliori auguri,

Didjeridu (Duetto Ipoeolio) Fuga

Ambasciatore

— Billea dice che Nasu le ha mangiato il demone.

— Non era ancora il suo demone, Ma. Era solo un gattino. E Nasu non l’ha mangiato. L’ha solo schiacciato. Era troppo grosso per mangiarlo.

Robin era di corsa. La sua borsa di stoffa di lana non pettinata, posata sulla cuccetta era piena solo per metà, e lei continuava a cercare nei cassetti, gettando via gli articoli che non intendeva prendere con sé, e lanciando alla madre quello che voleva portare via.

— Comunque, il gatto è morto. Billea vuole una compensazione.

— Dirò che il gatto era mio.

— Bambina. — Robin riconobbe il tono. Costanza era l’unica che potesse ancora usare quel tono con lei.

— Scherzavo — ammise Robin. — Pensaci tu, per favore. Dalle qualcosa di mio.

— Va bene. Che cosa ti metti?

— Questa? — Robin si voltò e le fece vedere la camicetta.

— È una camicia a una manica, bambina. Rimettila via.

— Certo, è una camicia a una manica. Tutte quelle che ho sono a una manica. Ti sei dimenticata del tuo regalo per il rito del sangue? — Le mostrò il braccio sinistro, con il tatuaggio del serpente arrotolato attorno a esso, dal mignolo alla spalla. — Non penserai che rinunci a una così bella occasione di sfoggiarlo su Gea?

— Ti lascia scoperto il petto, bambina. Vieni qui. Ti devo dire alcune cose.

— Sono di fretta, Ma…

— Siediti qui. — Batté la palma sul letto. Robin si avvicinò a lei, trascinando i piedi. Ma si sedette. Costanza attese che Robin la guardasse, poi le posò la mano sulla spalla. Costanza era una donna di alta statura, con i capelli neri. Robin era bassa, perfino per la Congrega. A piedi nudi, arrivava a 145 centimetri, e pesava 35 chili. Aveva preso ben poco dalla madre. Capelli e faccia erano quelli del suo anonimo padre.

— Robin — cominciò Costanza — non avevo mai pensato di doverti parlare di queste cose, ma adesso devo farlo. Tu vai in un mondo completamente diverso dal nostro. Laggiù ci sono creature chiamate «maschi». Non sono… non sono come noi. Hanno in mezzo alle gambe…

— Ma, so già tutto… — Robin si girò, cercando di sottrarsi alla mano della madre. Ma lei, senza accorgersene, le strinse ancor di più la spalla. Fissò la figlia in modo strano.

— Ne sei certa?

— Ho visto una foto, Ma. Non capisco come possano fare, se tu non sei d’accordo.

Costanza annuì. — Spesso — ammise — me lo sono chiesta anch’io. — Distolse lo sguardo per un istante, tossicchiando nervosamente. — Lasciamo perdere. La realtà è che la vita, nel mondo esterno, si basa sui desideri di quei maschi. Pensano sempre e soltanto a inserire in te il loro pene. Quel «coso» si gonfia in maniera incredibile, fino a diventare lungo come il tuo avambraccio, e due volte più spesso. Ti danno una botta sulla testa e ti trascinano in un passaggio laterale… o in una stanza vuota, penso io, o qualche luogo simile. — Aggrottò la fronte.

Poi riprese, tutto d’un fiato: — Non devi mai voltare la schiena, quando ne vedi uno, perché altrimenti ti stuprano. Ti possono fare un danno permanente. Ricorda, non sarai più a casa tua, tranquilla, ma nel mondo penista. Tutti sono penisti laggiù, anche le femmine.

— Me ne ricorderò, Ma.

— Promettimi che quando uscirai in pubblico, ti coprirai il petto e ti metterai sempre le mutandine.

— Be’, certo, le metterei in qualsiasi caso, con gente estranea. — Robin aggrottò la fronte. Il concetto di «gente estranea» le era chiaro solo dal punto di vista teorico. Anche se non le conosceva tutte per nome, le donne della Congrega erano per definizione sue sorelle. Aveva già pensato al fatto che, su Gea, avrebbe incontrato dei maschi, ma non aveva mai pensato che potessero esistere donne peniste. Strano pensiero.

— Promettimelo.

— Te lo prometto, Ma. — Robin si stupì della forza con cui la madre la abbracciò. Si baciarono, e Costanza si alzò di scatto e corse via.

Per un attimo, Robin fissò la porta da cui era uscita. Poi tornò a fare i bagagli.

5

Il vero gentiluomo

Accogliendo il suggerimento dell’ambasciatrice dei titanidi, Chris si era documentato su Gea, prima di salire sull’astronave diretta lassù. Era tutt’altro che uno sciocco, ma la pianificazione non era il suo forte. Aveva già visto fallire tanti dei suoi progetti, a causa degli accessi di follia, che aveva perso l’abitudine di farli.

Per prima cosa, comprese che Gea non era certo ai primi posti, tra le attrattive turistiche del Sistema Solare, e questo per vari motivi, che andavano dalle disumane procedure d’immigrazione alla mancanza di alberghi di prima categoria. Trovò un curioso dato statistico: mediamente, su Gea, arrivavano 150 persone al giorno. Ne ripartiva qualcuna di meno. E parte della differenza era data da coloro che decidevano di rimanere lassù: per stabilirsi su Gea non c’erano formalità burocratiche, e la sua popolazione umana residente ammontava a varie migliaia. Gli altri morivano in qualche incidente.