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Gli strumenti svolgevano il lavoro, le analisi, le simulazioni grafiche. L’astronomo si limitava a fare le domande, poi studiava le risposte. Per questo, non c’era bisogno di guardare le stelle.

Del resto, come si faceva a osservare le stelle rimanendo oziosi, passivi? rifletté Eugenia. Un astronomo poteva farlo? La vista delle stelle avrebbe dovuto provocare subito un senso di inquietudine nell’astronomo. C’era del lavoro che lo attendeva, c’erano delle domande da porre, dei misteri da risolvere, e dopo un po’, sicuramente, l’astronomo sarebbe tornato in laboratorio e avrebbe messo in funzione qualche apparecchiatura, distraendosi con la lettura di un romanzo o guardando uno spettacolo olovisivo.

Eugenia disse queste cose all’amico, mentre Genarr girava per l’ufficio assicurandosi di non avere lasciato nulla in sospeso prima di uscire. (Siever controllava sempre che tutto fosse a posto, ricordò Eugenia, pensando alla loro gioventù. Una caratteristica che lei aveva trovato irritante allora, ma forse avrebbe dovuto ammirarla. Siever aveva tante virtù, rifletté, e Crile d’altra parte…) Eugenia bloccò spietatamente i propri pensieri e li deviò in un’altra direzione.

Genarr stava dicendo: «Se devo essere sincero, nemmeno io uso molto spesso la sala d’osservazione. Sembra sempre che ci sia qualcos’altro da fare. E quando vado là, quasi sempre mi ritrovo solo. Sarà piacevole andarci in compagnia. Su, vieni!».

La guidò fino a un piccolo ascensore. Era la prima volta che Eugenia prendeva un ascensore nella Cupola, e per un attimo le parve di essere di nuovo su Rotor… solo che non avvertì alcun cambiamento dell’attrazione pseudogravitazionale, e non si sentì spingere leggermente contro una parete per l’effetto Coriolis, cosa che sarebbe successa su Rotor.

«Eccoci» annunciò Genarr, invitandola con un cenno a uscire. Eugenia lasciò la cabina, incuriosita, entrando in una sala vuota, e quasi subito arretrò.

«Siamo esposti?» chiese.

«Esposti?» ripeté Genarr, perplesso. «Ah, intendi dire, siamo a contatto con l’atmosfera di Eritro? No, no. Non temere. Ci troviamo in una semisfera di vetro diamantato antigraffio. Un meteorite lo sfonderebbe, naturalmente, ma i cieli di Eritro sono praticamente privi di meteoriti. Questo tipo di vetro esiste anche su Rotor, però» e a questo punto nella sua voce affiorò una nota di orgoglio «il nostro è di qualità migliore, e là non hanno vetrate di queste dimensioni.»

«Vi trattano bene quaggiù» commentò Eugenia, toccando adagio il vetro per assicurarsi che ci fosse davvero.

«Devono trattarci bene, se vogliono che la gente continui a venire qui» disse Genarr. Poi tornò a parlare della semisfera. «Certo, a volte piove, ma quando piove la visibilità è limitata comunque dalle nubi. E quando il cielo schiarisce, la bolla si asciuga in fretta. Rimane un residuo, e durante il giorno, una miscela detergente speciale pulisce la bolla. Siediti, Eugenia.»

Eugenia prese posto su una sedia morbida, comoda, che si inclinò quasi spontaneamente e le permise di ritrovarsi con lo sguardo rivolto verso l’alto. Sentì il lieve sibilo di un’altra sedia che si spostava sotto il peso di Genarr. Poi le piccole luci di servizio, che proiettavano un chiarore sufficiente a rivelare la presenza e la posizione delle sedie e dei tavolini della sala, si spensero. Nell’oscurità di un mondo disabitato, il cielo, sereno e scuro come velluto nero, si riempì di scintille.

Eugenia soffocò un’esclamazione. Sapeva com’era il cielo in teoria. L’aveva visto in tanti modi… mappe, carte, simulazioni, fotografie… ma mai nel suo aspetto reale. Senza accorgersene, non cercò di invividuare le cose interessanti, le particolarità sconcertanti, non si concentrò sui lati misteriosi che l’avrebbero spinta a mettersi subito al lavoro. Non guardò nessun corpo celeste, bensì i disegni che formavano.

Nella preistoria, pensò, era stato lo studio di quei disegni, di quelle strutture composte, non lo studio delle stelle in sé, a dare agli antichi le costellazioni, a segnare la nascita dell’astronomia.

Genarr aveva ragione. Un senso di pace l’avvolse, come un velo impalpabile.

Dopo un po’, quasi trasognata, disse: «Grazie, Siever».

«Perché mi ringrazi?»

«Per esserti offerto di accompagnare Marlene. Perché rischi la tua mente per mia figlia.»

«Non rischio la mente. Non ci accadrà nulla. E poi, provo un… un sentimento paterno per lei. In fin dei conti, Eugenia, ci conosciamo da parecchio tempo, e io ho… ho sempre avuto… molta stima di te.»

«Lo so» disse Eugenia, cominciando ad avvertire un senso di colpa. Aveva sempre saputo cosa provasse Genarr… lui non riusciva a nasconderlo. Prima di conoscere Crile, la reazione di Eugenia era stata di rassegnazione, in seguito era subentrata l’irritazione. «Se qualche volta dovessi aver ferito i tuoi sentimenti, Siever, mi spiace davvero.»

«Oh, non dirlo nemmeno» fece Genarr sottovoce. Poi seguì un lungo silenzio, la pace era sempre più intensa, ed Eugenia si augurò di cuore che non arrivasse nessuno a infrangere quella strana parentesi di serenità che l’avvinceva.

A un certo punto, Genarr disse: «Ho una mia teoria, sai? Credo di sapere perché la gente non frequenta la sala d’osservazione, qui… o su Rotor. Non hai mai notato che anche quella di Rotor non è molto frequentata?».

«A Marlene piaceva andare lassù ogni tanto» rispose Eugenia. «Mi ha spiegato che di solito era sola. Nell’ultimo anno, più o meno, diceva che le piaceva osservare Eritro. Avrei dovuto ascoltarla con maggiore attenzione…»

«Marlene è insolita… Secondo me, la cosa che da fastidio alla maggior parte della gente e le impedisce di venire quassù è quella.»

«Cosa?» domandò Eugenia.

«Là… Guarda.» Genarr stava indicando un punto del cielo, ma nell’oscurità Eugenia non vedeva il suo braccio. «Quella stella molto luminosa… la più luminosa.»

«Vuoi dire il Sole… il nostro Sole… il Sole del Sistema Solare…»

«Sì. È un intruso. Se non fosse per quella stella così luminosa, questo cielo sarebbe quasi identico al cielo visto dalla Terra. Alfa Centauri è in una posizione piuttosto anomala e Sirio è leggermente spostata, ma non ci faremmo caso. A parte queste cose, il cielo che vedi sarebbe quello osservato dai Sumeri cinquemila anni fa. Se non fosse per il Sole.»

«E tu pensi che il Sole tenga lontane le persone dalla sala d’osservazione?»

«Sì, può darsi che sia un fenomeno inconscio, però la vista del Sole le turba, secondo me. Si tende a pensare che il Sole sia lontano, lontanissimo, irraggiungibile, che appartenga quasi a un altro universo. Invece, eccolo là, in cielo, luminoso, che si impone alla nostra attenzione, che suscita in noi sensi di colpa per averlo abbandonato.»

«Ma allora, perché i bambini e gli adolescenti non frequentano la sala d’osservazione? In pratica, loro non sanno nulla del Sole e del Sistema Solare.»

«Noi adulti diamo un esempio negativo. Quando saremo morti noi, quando per tutti i rotoriani che verranno dopo il Sistema Solare sarà soltanto un’espressione, nient’altro che parole, Rotor si sentirà di nuovo padrone di questo cielo, e questo posto sarà affollato… se esisterà ancora.»

«Pensi che non esisterà più?»

«Non possiamo prevedere il futuro, Eugenia.»

«Finora, sembra che prosperiamo, che ci stiamo sviluppando.»

«Già, è vero… Ma è quella stella luminosa, l’intruso, che mi preoccupa.»

«Il nostro vecchio Sole. Che può farci? Non può raggiungerci.»

«Certo che può» replicò Genarr, fissando l’astro scintillante nella parte occidentale del cielo. «Quelli che abbiamo lasciato alle nostre spalle, sulla Terra e sulle Colonie, scopriranno Nemesis prima o poi. Forse l’hanno già scoperta. E forse hanno l’iperassistenza. Secondo me, devono aver messo a punto l’iperassistenza poco dopo la nostra partenza. La nostra scomparsa improvvisa deve averli stimolati parecchio.»