«Sei pazza» disse Eugenia, contrariata.
Marlene replicò immediatamente. «Dovresti smetterla di insinuare…»
«Dov’è finito il tuo acume intuitivo? Non mi riferivo al Morbo. Intendevo dire semplicemente che sei pazza, matta, nel senso… Oh, Marlene, stai facendo impazzire anche me… Siever? Se queste tute sono vecchie, come fai a sapere che non perderanno?»
«Le abbiamo controllate, Eugenia. Ti assicuro che non sono difettose. Tieni presente che esco anch’io con lei, e che anch’io indosserò una tuta.»
Eugenia stava cercando chiaramente tutte le obiezioni possibili. «E se tutt’a un tratto doveste aver voglia di… doveste…?»
«Orinare? È questo che vuoi dire? È un problema risolvibile, anche se sarebbe una seccatura. Comunque, non capiterà. Abbiamo vuotato la vescica tutti e due e saremo a posto per parecchie ore… almeno, dovremmo. E non ci allontaneremo molto, così in caso di emergenza potremo rientrare nella Cupola. Be’, meglio che andiamo, adesso, Eugenia. Le condizioni all’esterno sono buone, e dovremmo approfittarne… Su, Marlene, lascia che ti aiuti a infilare la tuta.»
«Piantala con quell’aria entusiasta» sbottò brusca Eugenia.
«Perché? Se devo essere sincero, anch’io ho voglia di uscire. Vedi, a un certo punto la Cupola diventa quasi una prigione… si ha questa sensazione. Forse se uscissimo tutti più spesso, la gente riuscirebbe a sopportare dei turni più lunghi nella Cupola… Ecco fatto, Marlene. Manca solo il casco.»
Marlene esitò. «Un attimo, zio Siever» disse. Si avvicinò alla madre, tendendo il braccio coperto dall’indumento voluminoso.
Eugenia la fissò con un’espressione afflitta.
«Mamma, te lo ripeto, non agitarti, per favore. Ti voglio bene… e non lo farei, non ti procurerei tutta questa apprensione, solo per soddisfare me stessa. Se lo faccio, è solo perché so che non mi accadrà nulla e che tu non devi preoccuparti. Scommetto che anche tu vorresti infilare una tuta e uscire per non perdermi di vista un solo istante, ma non devi farlo.»
«Perché non devo, Marlene? Se ti succederà qualcosa e non sarò accanto a te ad aiutarti, non me lo perdonerò mai!»
«Ma non mi accadrà nulla. E anche se dovesse succedermi qualcosa, tu cosa potresti fare? E poi, dato che hai così paura di Eritro, è probabile che la tua mente sia esposta a qualsiasi tipo di effetto abnorme. E se il Morbo dovesse colpire te, invece? Come credi che mi sentirei, io?»
«Ha ragione, Eugenia» disse Genarr. «Ci sarò io con lei, e la cosa migliore che tu possa fare è rimanere qui e rimanere calma. Tutte le tuteE sono dotate di radio. Marlene ed io saremo in contatto tra noi, e con la Cupola. Ti prometto che se si comporterà in modo strano, se noterò anche il minimo particolare anomalo, la farò rientrare subito. E se non mi sentirò perfettamente normale, tornerò subito qui, portando Marlene con me.»
Eugenia scosse la testa, per nulla consolata, mentre prima Marlene e poi Genarr indossavano il casco.
Erano accanto al compartimento stagno principale della Cupola, ed Eugenia osservò l’operazione. Conosceva benissimo il procedimento… chi non lo conosceva non poteva considerarsi un vero colono.
Controllo e regolazione della pressione, per assicurarsi che ci fosse un lieve passaggio d’aria dalla Cupola all’esterno, mai nella direzione opposta… Controlli computerizzati continui per accertarsi che non ci fossero perdite…
Poi il portello interno si aprì. Genarr entrò nella camera e chiamò Marlene con un cenno. La ragazza lo seguì, e la porta si chiuse. Quando non li vide più, Eugenia provò un tuffo al cuore.
Osservando gli strumenti, seppe esattamente quando il portello esterno si aprì e si richiuse. Poi l’oloschermo si accese, mostrando due figure in tuta sulla superficie spoglia di Eritro.
Uno dei tecnici porse un piccolo auricolare a Eugenia, che lo inserì nell’orecchio destro. Quindi le piazzarono di fronte un microfono sempre di dimensioni ridotte.
Una voce all’orecchio disse: «Contatto radio»… e subito si udì la voce familiare di Marlene. «Mi senti, mamma?»
«Sì, cara» rispose Eugenia. La sua voce le sembrava strana, fredda.
«Siamo fuori, ed è meraviglioso. È proprio bellissimo.»
«Sì, cara» ripeté Eugenia, sentendosi frastornata, smarrita, chiedendosi se sua figlia sarebbe ancora stata sana di mente una volta rientrata.
Siever Genarr posò il piede sulla superficie di Eritro provando quasi una sensazione di felicità. La parete curva della Cupola s’innalzava dietro di lui, ma Genarr le volse le spalle, perché una vista così «aliena» avrebbe guastato il sapore del mondo.
Sapore? Una parola strana riferita a Eritro… in quel momento non aveva senso. Genarr era dietro la barriera protettiva del casco, respirava l’aria della Cupola, o almeno l’aria depurata e condizionata nella Cupola. Non poteva sentire l’odore del pianeta, e nemmeno il sapore, chiuso in quel rifugio.
Eppure c’era qualcosa che gli trasmetteva una strana felicità. I suoi scarponi scricchiolarono sul terreno. Anche se non era rocciosa, la superficie di Eritro era piuttosto ghiaiosa, e tra la ghiaia c’era… il terreno… Genarr non poteva definirlo che così. Naturalmente, c’erano acqua e aria in abbondanza per sgretolare lo strato roccioso primordiale e, forse, i procarioti, presenti ovunque a trilioni, avevano dato il loro contributo lavorando pazientemente nel corso dei millenni.
Il terreno era morbido. Il giorno prima era piovuto… era scesa la pioggerella costante di Eritro, o almeno di quella parte di Eritro. Il terreno era ancora leggermente umido, e Genarr immaginò i granelli di sabbia e di argilla, avvolti nel loro sottile strato d’acqua rinnovato. In quello strato d’acqua, le cellule procariotiche vivevano felici, crogiolandosi nell’energia di Nemesis, trasformando proteine semplici in proteine complesse, mentre altri procarioti, indifferenti all’energia solare, sfruttavano invece il contenuto energetico dei resti dei procarioti che a trilioni morivano di attimo in attimo.
Marlene era al suo fianco. Stava guardando in su, e Genarr le disse garbato: «Non fissare Nemesis, Marlene».
La voce della ragazza gli risuonò naturale all’orecchio. Il tono non era minimamente teso, o apprensivo. Anzi, esprimeva una gioia pacata. «Sto guardando le nuvole, zio Siever.»
Genarr alzò lo sguardo verso il cielo scuro dove, socchiudendo un po’ gli occhi, si scorgeva un lieve luccichio gialloverdognolo. Sullo sfondo, i pennacchi delle nuvole non temporalesche che riflettevano la luce di Nemesis in un fulgore arancione.
Regnava una quiete arcana su Eritro. Non c’era nulla che producesse un suono. Non c’erano forme di vita che cantassero, ruggissero, ringhiassero, muggissero, pigolassero, cinguettassero, gracchiassero. Non c’erano foglie che stormissero, né insetti che ronzassero. Durante i rari temporali, magari si sentiva il rombo del tuono, o il sibilo del vento contro qualche masso… se il vento soffiava abbastanza forte. Ma in una giornata calma e tranquilla come quella, regnava il silenzio.
Genarr parlò, solo per assicurarsi che si trattasse davvero di silenzio e non di un attacco improvviso di sordità. (In realtà, non poteva essere diventato sordo, dal momento che sentiva il debole raspio del proprio respiro.)
«Stai bene, Marlene?»
«Meravigliosamente. C’è un ruscello laggiù.» E Marlene affrettò il passo, abbozzando quasi una corsa goffa, impedita com’era dalla tuta.
«Attenta, Marlene. Scivolerai.»
«Farò attenzione.» Naturalmente, anche se Marlene si stava allontanando, la sua voce mantenne la stessa intensità dato che si propagava grazie a un fascio di onde radio.
La voce di Eugenia Insigna risuonò di colpo all’orecchio di Genarr. «Perché Marlene sta correndo, Siever?» E un istante dopo: «Perché stai correndo, Marlene?».