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Eugenia Insigna non rispose, ma per Pitt la sua espressione era eloquente.

La voce di Janus Pitt era più bassa, quasi ipnotica. «Basta che il segreto rimanga tale per appena cent’anni. Se avremo cent’anni tutti per noi, per costruire la nostra nuova società, saremo abbastanza forti e numerosi da proteggerci e da costringere gli altri a proseguire verso altri mondi. Dopo di che non dovremo più nasconderci.»

Eugenia restò ancora in silenzio.

«Ti ho convinta?» chiese Pitt.

Lei parve scuotersi. «Non del tutto.»

«Allora pensaci, e dovresti farmi solo un favore. Mentre ci pensi, non parlare a nessuno della Stella Vicina, e dammi tutti i dati in tuo possesso perché li custodisca al sicuro. Non li distruggerò. Te lo prometto. Ci serviranno se vogliamo raggiungere la Stella Vicina. Ti senti di fare almeno questo, Eugenia?»

«Sì» rispose lei con un filo di voce. Poi si infervorò. «Una cosa, però… Il nome alla stella voglio darlo io. Se le darò un nome, sarà la mia stella.»

Pitt abbozzò un sorriso. «Come vuoi chiamarla? La Stella di Insigna? La Stella di Eugenia?»

«No. Non sono così sciocca. Voglio chiamarla Nemesis.»

«Nemesis? NEMESI?»

«Sì.»

«Perché?»

«Verso la fine del ventesimo secolo, per un breve periodo si sono fatte delle ipotesi circa l’esistenza di una stella compagna del Sole. Non si è concluso nulla, all’epoca. Non è stata trovata nessuna stella del genere, però negli studi dedicati ad essa, quella stella ipotetica veniva chiamata «Nemesis». Io vorrei onorare così quei pensatori audaci.»

«Nemesis? Non era il nome di una divinità greca? Di una divinità poco simpatica?»

«Era la Dea della Giustizia Distributrice, del Giusto Castigo, della Punizione. È un’espressione entrata a far parte della lìngua come termine piuttosto fiorito. Il computer l’ha definito «arcaico» quando ho controllato.»

«E perché allora l’avevano chiamata Nemesis?»

«Era qualcosa di legato alla nube cometaria. A quanto pare, Nemesis, nella sua rivoluzione attorno al Sole, avrebbe attraversato la nube provocando cataclismi cosmici dagli effetti devastanti per gran parte delle forme di vita terrestri ogni ventisei milioni di anni.»

Pitt assunse un’espressione di stupore. «È vero?»

«No. L’idea ha avuto vita breve. Comunque, voglio che il nome della stella sia questo. E voglio che, nei documenti ufficiali, risulti che sono stata io a battezzarla Nemesis.»

«Promesso, Eugenia. La scoperta è tua, e verrà registrata nei nostri archivi. Alla fine, quando il resto dell’umanità scoprirà la regione nemesiana… è l’aggettivo giusto?… quando la scopriranno, dicevo, tutti sapranno com’è avvenuta la scoperta e il nome dell’artefice. La tua stella, la tua Nemesis, sarà la prima stella, dopo il Sole, a splendere su una civiltà umana, e la prima in assoluto a splendere su una civiltà umana nata altrove.»

Pitt osservò Eugenia che si allontanava, e si sentì complessivamente fiducioso. La dottoressa si sarebbe schierata con lui. Permetterle di dare il nome alla stella era stata una mossa perfetta. Sicuramente, avrebbe voluto raggiungere la sua stella, adesso. Sarebbe stata attratta dall’idea di costruire una società logica e ordinata attorno alla sua stella, una civiltà da cui forse sarebbero discese altre civiltà sparse in tutta la Galassia.

Poi, mentre avrebbe potuto rilassarsi pregustando un futuro fulgido, Janus Pitt fu scosso da un brivido di orrore che gli era completamente estraneo.

Perché Nemesis? Perché le era venuto in mente di dare alla stella il nome della Dea del Castigo Divino?

Per poco, non fu tanto debole da interpretarlo come un sinistro presagio.

3 Madre

VI

Era ora di cena e, come le succedeva a volte, Eugenia Insigna si trovava in uno stato d’animo particolare: provava un lieve timore di sua figlia.

Il fenomeno era diventato più pronunciato ultimamente, e lei non ne conosceva il motivo. Forse perché Marlene era sempre più silenziosa, introversa, e dava l’impressione di isolarsi con pensieri troppo profondi per essere espressi.

E a volte il timore che turbava Eugenia era accompagnato da un senso di colpa: si sentiva in colpa per la sua mancanza di pazienza materna con la ragazza, e perché era fin troppo consapevole delle imperfezioni fisiche di Marlene. Marlene non possedeva certamente la bellezza convenzionale della madre, né la prestanza rude e insolita del padre.

Era bassa e… tozza. Era l’unico aggettivo calzante che Eugenia riuscisse a trovare per descrivere la povera Marlene.

E povera, naturalmente. Un termine di compatimento che Eugenia usava spessissimo dentro di sé e che stentava a non lasciarsi sfuggire.

Bassa. Tozza. Tarchiata senza essere grassa, ecco Marlene. Non c’era nulla di aggraziato in lei. Capelli castano scuro, piuttosto lunghi, lisci. Naso leggermente bulboso, bocca piegata leggermente verso il basso alle estremità, mento piccolo, atteggiamento passivo e chiuso.

C’erano gli occhi, naturalmente: grandi, scuri, lucenti, con sopracciglia scure dalla curva perfetta, e lunghe ciglia che quasi sembravano finte. Eppure, gli occhi, da soli, non potevano compensare tutto il resto, per quanto certe volte potessero risultare affascinanti. Fin da quando Marlene aveva cinque anni, Eugenia Insigna aveva capito che, difficilmente, sua figlia avrebbe attirato un uomo a livello esclusivamente fisico, un fatto che si era evidenziato sempre più col passare degli anni.

Aurinel l’aveva guardata con occhio languido quando lei non aveva ancora raggiunto l’adolescenza, attratto evidentemente dalla sua intelligenza precoce, dalla sua vivida perspicacia. E Marlene aveva accolto la presenza di Aurinel con un misto di timidezza e di compiacimento, quasi si rendesse conto in modo vago che c’era qualcosa di tenero e accattivante in un oggetto chiamato «ragazzo», senza sapere però di che potesse trattarsi.

Negli ultimi due anni, secondo Eugenia Insigna, Marlene aveva finalmente chiarito a se stessa il significato di «ragazzo». L’avidità con cui divorava libri e film che non sembravano adatti a lei, a giudicare dal suo corpo, l’aveva aiutata. Ma anche Aurinel era cresciuto e, ora che gli ormoni avevano incominciato a influenzare il suo comportamento, non era più tempo di giocare e scherzare per lui. Cercava qualcos’altro.

Quella sera, a cena, Eugenia chiese: «Com’è andata la giornata, cara?»

«Tranquilla. Aurinel è venuto a cercarmi, e immagino che poi sia venuto da te a riferire. Mi spiace che tu debba scomodarti a darmi la caccia.»

Eugenia sospirò. «Ma, Marlene… a volte non posso fare a meno di pensare che tu sia infelice, ed è normale che mi preoccupi, no? Stai troppo sola.»

«Mi piace stare sola.»

«Vedendoti, non si direbbe. Non sembri affatto contenta di stare sola. Ci sono molte persone che vorrebbero offrirti la loro amicizia, e tu saresti più felice se glielo permettessi. Aurinel è tuo amico.»

«Era. Adesso è troppo indaffarato con altra gente. L’ho capito subito, oggi, e la cosa mi ha fatto infuriare. Non stava quasi nella pelle, pensava a Dolorette.»

«Non puoi biasimarlo. Dolorette ha la sua età.»

«Fisicamente. È stupida e frivola.»

«Il lato fisico conta parecchio all’età di Aurinel.»

«Si vede. Diventa stupido anche lui. Più fa lo svenevole per Dolorette, più ha la testa vuota. Si capisce subito.»

«Ma Aurinel continuerà a crescere, Marlene, e quando sarà un po’ più vecchio forse scoprirà quali sono le cose veramente importanti. E crescerai anche tu, e…»

Marlene fissò Eugenia Insigna con aria interrogativa. «Dai, mamma» disse poi. «Non credi affatto a quello che stai cercando di insinuare. No, non ci credi proprio.»