Quasi fosse un segnale, o quasi quel pensiero avesse liberato una nuova scarica di energia, o acuito la sua immaginazione, Marlene sentì…
«Mahhh leee nehhh.»
D’istinto, senza rendersene conto, portò le mani alle orecchie e le coprì.
"Marlene" pensò.
E un attimo dopo il suono si sforzò di imitarla. «Mahrleeneh.»
Poi, di nuovo, più sciolto, quasi con naturalezza. «Marlene.»
Marlene rabbrividì, e riconobbe la voce. Era Aurinel, Aurinel di Rotor, che non aveva più visto dal giorno in cui, su Rotor, gli aveva detto che la Terra sarebbe stata distrutta. Non aveva quasi più pensato a lui in seguito… ma le rare volte che aveva pensato ad Aurinel, aveva sofferto, sempre.
Perché sentiva la sua voce se lui non era lì… o qualunque voce, se lì non c’era nulla?
«Marlene.»
Marlene si arrese. Era il Morbo… nonostante fosse stata così sicura che non l’avrebbe colpita.
Cominciò a correre alla cieca, verso la Cupola, senza fermarsi a cercarla con lo sguardo.
Stava urlando, e non lo sapeva.
Erano intervenuti. Avevano sentito che all’improvviso si stava avvicinando di corsa. Due guardie in tutaE erano uscite subito e l’avevano sentita urlare.
Ma le urla erano cessate prima che la raggiungessero. Marlene aveva anche rallentato e si era fermata… prima di accorgersi della loro presenza, apparentemente.
Quando le guardie erano arrivate accanto a lei, le aveva guardate tranquilla e le aveva lasciate di stucco chiedendo: «Be’? Che c’è che non va?».
Nessuno aveva risposto. Una mano si era accostata al suo gomito e Marlene l’aveva respinta.
«Non toccatemi» aveva detto. «Verrò alla Cupola, se è questo che volete, ma posso camminare da sola.»
E si era avviata in silenzio con loro. Era molto padrona di sé.
Eugenia Insigna, le labbra secche e pallide, stava cercando di non mostrarsi sconvolta. «Cos’è successo là fuori, Marlene?»
Gli occhi scuri imperscrutabili, Marlene rispose: «Nulla. Proprio nulla».
«Non dire così. Stavi correndo e gridavi.»
«L’avrò anche fatto per un po’… ma solo per un po’. Vedi, c’era silenzio, un silenzio tale che a un certo punto ho avuto l’impressione di essere diventata sorda. Sai, un silenzio assoluto. Così ho pestato i piedi e ho corso solo per sentire il rumore, e ho gridato…»
«Solo per sentire il rumore?» Eugenia aggrottò le ciglia.
«Sì, mamma.»
«E ti aspetti che ci creda, Marlene? No, non ci credo. Abbiamo sentito le tue grida, e non erano le grida di chi vuole fare rumore e basta. Erano grida di terrore. Qualcosa ti aveva spaventata.»
«Te l’ho detto. Il silenzio. La paura della sordità.»
Eugenia si rivolse alla D’Aubisson. «Dottoressa, se non si sente nulla, proprio nulla, e si è abituati a sentire sempre qualcosa, non è possibile che le orecchie immaginino di udire qualcosa tanto per sentirsi utili?»
La D’Aubisson accennò un sorriso. «Si è espressa in modo colorito, ma è vero. La privazione sensoriale può provocare delle allucinazioni.»
«Ecco cosa mi ha disturbato, credo… Ma dopo avere sentito la mia voce e i miei passi mi sono calmata. Chiedetelo alle due guardie che sono venute a prendermi. Ero calmissima quando sono arrivate, e le ho seguite fino alla Cupola senza nessun problema… Chiediglielo, zio Siever.»
Genarr annuì. «Me l’hanno detto. E poi, anche noi abbiamo visto. Molto bene, allora. Tutto risolto.»
«Assolutamente!» sbottò Eugenia, ancora pallida… di paura, o di rabbia, o per entrambe le cose. «Marlene non uscirà più. L’esperimento è finito.»
«No, mamma» ribatté Marlene, offesa.
La D’Aubisson alzò la voce, quasi a prevenire un diverbio rabbioso tra madre e figlia. «L’esperimento non è finito, dottoressa Insigna. Non è il momento di decidere se uscirà ancora o meno. Dobbiamo ancora occuparci delle conseguenze di quel che è accaduto.»
«Cosa vorrebbe dire?» chiese Eugenia.
«Voglio dire, d’accordo parlare di voci immaginarie che si sentono perché l’orecchio non è abituato al silenzio… ma queste voci immaginarie possono essere collegate anche all’insorgenza di una certa instabilità mentale.»
Eugenia rimase esterrefatta.
«Ti riferisci al Morbo di Eritro?» disse Marlene.
«Non in particolare, Marlene» rispose Ranay D’Aubisson. «Non abbiamo alcuna prova. È solo una possibilità. Quindi ci occorre un’altra analisi cerebrale. Per il tuo bene.»
«No.»
«Non dire no» insisté la D’Aubisson. «È indispensabile. Non abbiamo scelta. Bisogna farlo.»
Marlene la guardò, meditabonda. «Tu speri che abbia il Morbo. Vuoi che abbia il Morbo.»
La dottoressa s’irrigidì, le si incrinò la voce. «Che assurdità. Come osi dire una cosa simile?»
Ma adesso era Genarr che stava fissando la D’Aubisson. «Ranay, abbiamo già discusso di questo piccolo particolare riguardo Marlene… e se lei dice che tu vuoi che abbia il Morbo, be’, devi esserti tradita in qualche modo. Sempre che Marlene parli seriamente e non lo stia dicendo solo per paura o per rabbia.»
«Parlo seriamente» confermò Marlene. «Era tutta speranzosa e eccitata poco fa.»
«Be’, Ranay?» chiese Genarr, un po’ gelido. «È vero?»
«Capisco a cosa si riferisce la ragazza» rispose la D’Aubisson, aggrottando le ciglia. «Sono anni che non studio un caso di Morbo in fase avanzata. E in passato, quando la Cupola era stata appena costruita ed era ancora una struttura primitiva, in pratica mi mancavano gli strumenti adeguati per studiarlo. Professionalmente, mi piacerebbe moltissimo poter studiare in modo approfondito un caso di Morbo con le tecniche e le strumentazioni moderne, per scoprire, forse, la vera causa, la vera cura, il vero metodo preventivo. Sì, è una prospettiva eccitante. È eccitazione professionale quello che questa signorina, incapace di leggere il pensiero e senza esperienza in certe cose, interpreta come semplice gioia. Non è semplice.»
«Non sarà semplice… però è qualcosa di malvagio» replicò Marlene. «Su questo non mi sbaglio.»
«Ti sbagli… Dobbiamo fare l’analisi cerebrale, e la faremo.»
«No» disse Marlene, urlando quasi. «Dovrete costringermi o darmi dei sedativi, e allora non sarà valida.»
Eugenia intervenne, con voce tremula. «Non voglio che si faccia nulla se lei non è d’accordo.»
«Il fatto che sia d’accordo o meno non ha proprio nessuna…» iniziò la D’Aubisson, poi barcollò all’indietro portandosi una mano all’addome.
«Che succede?» chiese automaticamente Genarr.
Poi, senza attendere una risposta, mentre Eugenia accompagnava la dottoressa a un divano e la convinceva a sdraiarsi, Genarr si rivolse alla ragazza. «Marlene, accetta il test.»
«No. Lei dirà che ho il Morbo.»
«Non lo dirà. Te lo garantisco. Non lo dirà, a meno che tu non abbia davvero il Morbo.»
«Non ce l’ho.»
«Ne sono sicuro, e l’analisi cerebrale lo dimostrerà. Fidati di me, Marlene. Ti prego.»
Marlene lanciò un’occhiata alla D’Aubisson, quindi tornò a guardare Genarr. «E potrò uscire ancora su Eritro?»
«Certo. Tutte le volte che vorrai. Se sei normale… e tu sei sicura di essere normale, vero?»
«Sicurissima.»
«Allora l’analisi cerebrale lo dimostrerà.»
«Sì, ma lei dirà che non posso uscire.»
«Tua madre?»
«E la dottoressa.»
«No. Non oseranno fermarti. Su, adesso di’ che farai l’analisi cerebrale, eh?»