«Erano molto più piccoli, e le distanze erano molto minori. Ma, come ti ho detto, poteva andare peggio. Abbiamo scoperto che la distanza percorsa è quella giusta. La posizione delle stelle è giusta.»
«Ma è cambiata. Ho visto benissimo.»
«Perché siamo orientati in modo diverso. L’asse longitudinale della nave si è spostato di oltre ventotto gradi. In poche parole, per qualche motivo, abbiamo seguito una traiettoria curva e non rettilinea.»
Le stelle, al di là dell’oblò, si stavano muovendo, lentamente.
«Ci stiamo girando di nuovo verso la Stella Vicina, una manovra che ha soltanto un’utilità psicologica» aveva spiegato Tessa. «Ma adesso si tratta di scoprire come mai c’è stata questa deviazione durante il passaggio.»
La stella luminosa, la stella faro, era apparsa nell’oblò. Fisher aveva battuto le palpebre.
«Il Sole» aveva detto Tessa, rispondendo all’espressione di stupore di Fisher.
«C’è qualche spiegazione plausibile della traiettoria curva seguita dalla nave? Se è successo anche a Rotor, chissà dove sono finiti?»
«O dove finiremo noi. Perché io non ho nessuna spiegazione. Non ora.» Tessa lo aveva guardato, visibilmente preoccupata. «Se le nostre ipotesi fossero esatte, avremmo dovuto cambiare posizione ma non direzione, muovendoci in linea retta, una linea retta euclidea, nonostante la curva relativistica dello spaziotempo, perché vedi, non eravamo nello spaziotempo. Forse c’è un errore nella programmazione del computer… o nei nostri presupposti. Io spero che sia un errore di programmazione. Si può correggere più facilmente.»
Erano trascorse cinque ore. Tessa era tornata, strofinandosi gli occhi. Fisher aveva alzato lo sguardo, inquieto. Aveva guardato un film, ma l’interesse era passato presto. Allora aveva osservato le stelle, lasciandosi ipnotizzare dal loro disegno… un effetto anestetico.
«Be’, Tessa?»
«Non c’è nessun errore di programmazione, Crile.»
«Allora devono essere sbagliati i presupposti.»
«Già. Ma come? Potremmo fare un’infinità di ipotesi. Quali sono quelle giuste? Non possiamo provarle tutte. Non finiremmo mai, ci perderemmo irrimediabilmente.»
Per un po’ erano rimasti in silenzio, quindi Tessa Wendel aveva detto: «Se fosse stata la programmazione, sarebbe stato un errore stupido. L’avremmo corretto, senza imparare nulla, però saremmo stati salvi. Ma adesso, se dobbiamo tornare ai fondamenti, è possibile che scopriamo qualcosa di veramente importante… ma se falliamo, forse non riusciremo più a tornare a casa». Tessa gli aveva preso la mano. «Capisci, Crile? C’è qualcosa che non va, e se non scopriamo di che si tratta, sarà impossibile trovare la via del ritorno, se non per puro caso. Per quanto possiamo tentare, probabilmente continueremo a finire nel punto sbagliato, allontanandoci sempre più. E alla fine moriremo, quando i sistemi di riciclaggio smetteranno di funzionare, o quando esauriremo l’energia, o quando la profonda di sperazione minerà la nostra capacità di sopravvivenza. E sono stata io a farti questo. Ma la vera tragedia sarebbe la fine di un sogno. Se non torniamo, non sapranno mai com’è andata. Può darsi che pensino che la transizione sia stata fatale, e magari non proveranno più.»
«Ma devono insistere, se vogliono abbandonare la Terra.»
«Forse rinunceranno, aspetteranno passivi che la stella si avvicini e prosegua nello spazio, morendo a poco a poco.» Tessa lo aveva guardato, battendo le palpebre, il volto stanchissimo. «E sarebbe anche la fine del tuo sogno, Crile.»
Fisher aveva stretto le labbra, rimanendo zitto.
Quasi timidamente, Tessa aveva detto: «Ma in questi anni, Crile, hai avuto me. Se sei destinato a rinunciare al tuo sogno… a tua figlia… io ti sono bastata?»
«Potrei chiederti… se sei destinata a rinunciare al tuo sogno, al volo ultraluce, ti sono bastato, io?»
Non era facile rispondere, per nessuno dei due, poi però Tessa aveva detto: «Dopo il volo ultraluce, Crile, tu sei la cosa più importante che abbia avuto, e non posso proprio lamentarmi. Grazie».
«Questo vale anche per me, Tessa… e non l’avrei mai immaginato, all’inizio. Se non avessi avuto una figlia, ci saresti stata solo tu. Vorrei quasi…»
«No. Mi accontento di occupare il secondo posto, in ordine di importanza.»
Si erano tenuti per mano. In silenzio. E avevano osservato le stelle.
Poi Merry Blankowitz si era affacciata alla porta. «Capitano Wendel, Wu ha un’idea. L’ha sempre avuta, dice… però era restio a parlargliene.»
Tessa si era alzata. «Perché era restio?»
«Una volta le ha accennato la cosa, sostiene… e lei gli ha detto di non essere sciocco.»
«Davvero? È convinto che io sia infallibile? Adesso lo ascolterò, e se sarà una buona idea gli torcerò il collo per non avere insistito prima.»
Dopo di che, Tessa era uscita.
Nel giorno e mezzo successivo, a Fisher non era rimasto che aspettare. Avevano mangiato assieme, come sempre, ma in silenzio. Chissà se gli altri avevano dormito? Fisher non lo sapeva. Lui aveva dormito solo a intervalli irregolari e al suo risveglio era piombato di nuovo nella disperazione.
"Quanto possiamo andare avanti così?" si chiese il secondo giorno, ammirando la bellezza di quel puntino irraggiungibile che brillava nel cielo, e che fino a poco tempo prima lo aveva scaldato e aveva illuminato il suo cammino sulla Terra.
Prima o poi, sarebbero morti. La moderna tecnologia spaziale avrebbe prolungato la vita. I sistemi di riciclaggio erano piuttosto efficienti. Anche il cibo sarebbe durato a lungo, purché fossero disposti a mangiare l’insipido pane di alghe che sarebbe rimasto alla fine.
I motori a microfusione avrebbero continuato a erogare energia per un pezzo. Ma, sicuramente, nessuno avrebbe voluto prolungare la propria esistenza per tutto il tempo consentito dalla nave.
Di fronte alla prospettiva certa di una lenta agonia e di una morte solitaria, la soluzione razionale sarebbe stata quella di ricorrere ai demetabolizzatori regolabili.
Sulla Terra era il metodo preferito per suicidarsi… perché non avrebbe dovuto esserlo anche a bordo della nave? Volendo, si poteva regolare il dosaggio per una giornata intera di vita normale, e viverla il più gioiosamente possibile… sapendo che sarebbe stata l’ultima. Al termine del giorno, sarebbe subentrata una sonnolenza naturale. Sbadigliando, il «demetabolizzato» sarebbe scivolato in un sonno tranquillo costellato di sogni riposanti; lentamente, il sonno sarebbe diventato più profondo, i sogni sarebbero svaniti, e non ci sarebbe più stato alcun risveglio.
Non era mai stata inventata una morte più dolce.
Poi, poco prima delle 17, ora della nave, a due giorni di distanza dalla transizione che aveva spostato la nave lungo una traiettoria curva invece che rettilinea, Tessa si precipitò nella sala. Aveva gli occhi spiritati, ansimava, e i suoi capelli scuri, ormai cosparsi di grigio, erano scarmigliati.
«Brutte notizie?» chiese Fisher costernato, alzandosi.
«No, buone!» Tessa si abbandonò su un sedile.
Fisher non era sicuro di avere capito bene… forse le parole di Tessa erano solo ironiche. La fissò, e vide che si calmava, che tornava padrona di sé.
«Buone» ripeté lei. «Ottime. Eccezionali! Crile, hai di fronte a te un’idiota. Immagino che non mi riprenderò più da questo colpo.»
«Be’, che è successo?»
«ChaoLi Wu aveva la risposta. Fin dall’inizio. Me l’aveva detto. Ricordo benissimo. Mesi fa. Un anno fa, probabilmente. Non gli ho dato retta.
Non l’ho nemmeno ascoltato, in pratica.» Tessa fece una pausa per riprendere fiato. L’eccitazione aveva sconvolto il ritmo naturale del suo linguaggio. «Il guaio è che mi consideravo la massima autorità mondiale in fatto di volo ultraluce, ed ero convinta di sapere già tutto, di avere già pensato a tutto. Se qualcuno suggeriva qualcosa che a me sembrava strana, be’, l’idea era sbagliata e basta, e stupida, magari. Capisci?»