Un’altra pausa.
«Signore, comincio ad avere qualche problema concettuale riguardo al ruolo svolto da me e dal mio socio in queste birbonate.»
Ci fu una terza pausa, e mister Croup divenne più pallido del pallido.
«Poco professionali?» chiese gentilmente. «Noi?»
Chiuse la mano a pugno e la sbatté, con una certa forza, contro un muro di mattoni. Nel tono di voce però, non si percepì alcun cambiamento, mentre diceva, «Signore, posso con il dovuto rispetto ricordarvi che mister Vandemar e io abbiamo bruciato fino alle fondamenta la città di Troia? Abbiamo portato la Morte Nera nelle Fiandre. Il nostro ultimo incarico prima di questo è stato torturare a morte un intero monastero nella Toscana del sedicesimo secolo. Noi siamo estremamente professionali.»
Mister Vandemar, che si era divertito ad acchiappare piccole rane e a vedere quante riusciva a infilarsene in bocca in una sola volta prima di essere costretto a masticare, disse, con la bocca piena, «Mi è piaciuto farlo…»
«Il punto?» chiese mister Croup, dando un colpetto per togliere della polvere immaginaria dal liso completo nero, ignorando del tutto quella vera. «Il punto è che siamo degli assassini. Dei tagliagole. Noi uccidiamo.»
Ascoltò qualcosa, poi, «Bene, e per quanto riguarda quello del Mondo di Sopra? Perché non possiamo ammazzarlo?» Mister Croup ebbe uno spasmo, sputò di nuovo e prese a calci il muro, mentre se ne stava li in piedi tenendo in mano il telefono mezzo rotto e coperto di ruggine.
«Spaventarla? Siamo tagliagole, non spaventapasseri.» Una pausa. Fece un respiro profondo. «Si, capisco, però non mi piace.» Ma la persona all’altro capo del filo aveva riattaccato. Mister Croup diede un’occhiata al telefono. Quindi lo sollevò con una mano e procedette metodicamente a ridurlo in minuscoli frammenti di metallo e plastica sbattendolo contro il muro.
Mister Vandemar passò oltre. Aveva trovato una grossa lumaca nera con la parte inferiore di un bell’arancione brillante, e la stava masticando come fosse un sigaro di liquirizia. La lumaca, che non era molto astuta, stava cercando di strisciare via lungo il mento di mister Vandemar.
«Chi era?» chiese mister Vandemar.
«Chi diavolo pensa che fosse?»
Mister Vandemar masticò meditabondo, poi succhiò la lumaca aspirandola in bocca quasi fosse un blocco di spaghetti scotti, neri e arancione. «Uno spaventapasseri?» azzardò.
«Il nostro datore di lavoro.»
«Era la mia seconda ipotesi.»
«Spaventapasseri» sputò mister Croup, disgustato. Stava passando da una rabbia rosso-violacea a un grigio e untuoso malumore.
Mister Vandemar inghiottì il contenuto della bocca e si pulì le labbra sulla manica. «Il modo migliore per spaventare i passeri» disse mister Vandemar «è di scivolargli alle spalle, mettere la mano intorno ai loro sottili colli da passero e stringere finché non si muovono più. Questo li spaventa a morte.»
Quindi tacque, e da lontano, sopra le loro teste, udirono il rumore di passeri e corvi che volavano lassù, gracchianti di rabbia.
«Passeri. Corvi. Famiglia dei passeriformi o passeracei. Nome collettivo» intonò mister Croup, assaporando il suono della parola: «omicidio.»
Richard era rimasto ad aspettare contro il muro, vicino a Porta. Lei parlava poco; si mangiava le unghie, passava le mani nei capelli, che si rizzavano in tutte le direzioni, poi cercava di lisciarli di nuovo.
Indubbiamente non aveva mai conosciuto una persona cosi.
Quando si accorse di essere osservata, si strinse nelle spalle e ondeggiando sprofondò ulteriormente nei suoi strati di vestiti, nascondendosi nella giacca di pelle. Gli occhi guardavano il mondo da dentro una giacca. L’espressione sul suo viso fece ricordare a Richard un bambino senza casa che aveva visto dietro il Covent Garden l’inverno precedente: non sapeva se fosse maschio o femmina. La madre chiedeva l’elemosina, supplicando i passanti di darle del denaro per nutrire il bambino e il neonato che teneva in braccio. Il bambino, invece, fissava il mondo senza domandare nulla, anche se doveva avere freddo e fame. Stava li, fermo, a fissare.
Hunter si avvicinò a Porta, controllando la banchina a destra e a sinistra. Il Marchese aveva detto dove dovevano aspettare e si era allontanato. Da chissà dove, Richard udi il pianto di un bambino.
Il Marchese scivolò fuori da una porta con scritto ’uscita’ e si diresse verso di loro. Stava succhiando una caramella.
«Divertito?» chiese Richard. Stava arrivando un treno.
«Faccende di lavoro» rispose il Marchese. Consultò il pezzo di carta e l’orologio. Indicò un punto sulla banchina. «Questo è il treno per Earl’s Court. Statemi dietro, voi tre.»
Poi, mentre il treno del metrò — un treno dall’aspetto alquanto banale, notò Richard, deluso — rimbombava e sferragliava entrando nella stazione, il Marchese si chinò per superare Richard e dire a Porta, «Mia signora? C’è una cosa che forse avrei fatto meglio a menzionare prima.»
Gli occhi dallo strano colore si volsero verso di lui. «Si?»
«Be’,» disse «il Conte potrebbe non gradire particolarmente la mia visita.»
Il treno rallentò e si fermò. La carrozza vicino a cui si trovava Richard era completamente vuota: le luci erano spente, era cupa, deserta e buia. Le altre porte del treno si aprirono con un sibilo. Passeggeri salivano e scendevano. Le porte del vagone buio rimanevano chiuse.
Con il pugno, il Marchese tamburellò sulla porta un rap ritmico e complicato. Non accadde nulla. Richard si stava già chiedendo se il treno sarebbe ripartito senza prenderli a bordo, quando la porta del vagone venne aperta dall’interno. Da un’apertura di una ventina di centimetri spuntò un viso di vecchio che li osservò incuriosito.
«Chi bussa?» chiese.
Attraverso lo spazio tra le porte scorrevoli Richard poteva vedere alte fiamme, gente e fumo. Attraverso il vetro sulle porte stesse, però, continuava a vedere solo una carrozza buia e vuota.
«Lady Porta» disse dolcemente il Marchese «e i suoi compagni.»
La porta si spalancò, ed eccoli giunti alla Corte del Conte, Earl’s Court.
SETTE
Sparsa sul pavimento c’era della paglia, sopra a uno strato di giunchi. Un bel fuoco di legna ardeva e crepitava in un grande camino. C’erano polli che becchettavano e si aggiravano con aria sussiegosa. C’erano sedili con cuscini ricamati a mano e arazzi che coprivano porte e finestrini.
Quando il treno sobbalzò per uscire dalla stazione, Richard barcollò in avanti. Allungò una mano, si aggrappò alla persona più vicina e riuscì a recuperare l’equilibrio.
La persona più vicina era un vecchio uomo d’armi basso e grigio, che, stabili Richard, avrebbe potuto essere scambiato per un impiegato statale da poco in pensione non fosse stato per l’elmetto, il sorcotto, la cotta di maglia saldata grossolanamente e la lancia. Cosi com’era, pareva comunque un impiegato statale da poco in pensione che, del tutto controvoglia, fosse stato costretto a unirsi alla compagnia teatrale amatoriale del quartiere e obbligato a recitare la parte dell’armigero.
L’uomo basso e grigio guardò Richard socchiudendo gli occhi miopi e disse, «Scusi.»
«Colpa mia» rispose Richard.
«Lo so» ribadì l’omino.
Un levriero irlandese camminava a passi felpati lungo il corridoio, per fermarsi a fianco di un suonatore di liuto, che sedeva sul pavimento pizzicando le corde e producendo in maniera discontinua una lieta melodia. Il cane fissò Richard, sbuffò sdegnoso, si sdraiò e si mise a dormire.
Nell’angolo più lontano del vagone, un anziano falconiere con un falco incappucciato sul polso stava scambiando battute scherzose con un piccolo crocchio di damigelle, tutte molto vicine alla data di scadenza e alcune scadute da tempo. Ovviamente qualche passeggero guardava i quattro viaggiatori; altri, altrettanto ovviamente, li ignoravano.