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Senti una leggera brezza sul viso. Era cambiato qualcosa nella qualità del buio oltre le sue palpebre chiuse.

«Allora, qual’è la tua opinione?» chiese Porta. Anche l’acustica era cambiata: si trovavano in una stanza più grande. «Puoi aprire gli occhi, adesso.»

Aprì gli occhi. Erano dall’altra parte del muro, in quello che a prima vista sembrava lo sgabuzzino di un rigattiere. Ma non si trattava di normali cose vecchie: c’era un che di strano e di speciale nella qualità degli oggetti sparsi. Era il genere di cianfrusaglie rare, magnifiche, strane e costose che ci si aspetta di trovare in un posto come…

«Siamo nel British Museum?» chiese.

La ragazza aggrottò le sopracciglia, meditabonda, o forse in ascolto. «Non esattamente. Siamo molto vicini. Penso che questo sia una specie di deposito o di magazzino. Qualcosa del genere.»

Allungò la mano per toccare la stoffa di un abito antico indossato da un manichino di cera.

«Vorrei che fossimo rimasti con la guardia del corpo» disse Richard.

Porta piegò la testa da un lato e lo guardò seria. «E tu da cosa devi essere protetto, Richard Mayhew?»

«Da niente» ammise. Quindi svoltarono un angolo e disse, «Be’… forse da loro» e allo stesso tempo Porta esclamò «Merda!»

Il motivo per cui Richard aveva detto «Forse da loro» e Porta aveva esclamato «Merda!» era il seguente: mister Croup e mister Vandemar se ne stavano in piedi su dei plinti ai lati del corridoio che stavano percorrendo. A Richard ricordarono orribilmente una mostra di arte moderna a cui una volta l’aveva portato Jessica: un affascinante giovane artista aveva allestito una mostra che prometteva di abbattere tutti i tabù dell’arte, e a questo scopo il suddetto artista aveva intrapreso una campagna sistematica di ruberie nelle tombe, per esporre quindi in contenitori di vetro i trenta reperti più interessanti dei suoi saccheggi.

La mostra venne chiusa dopo che «Cadavere trafugato numero 25» fu venduto a un’agenzia pubblicitaria per una somma a nove zeri, e che i parenti del Cadavere trafugato numero 25, vedendo una fotografia della scultura sul quotidiano Sun, citarono in giudizio artista e agenzia per avere una parte dei proventi e la possibilità di cambiare il titolo dell’opera d’arte in «Edgar Fospring, 1919-1987, marito, padre e zio affettuoso. Riposa in pace, papà.»

Richard aveva fissato con orrore i cadaveri rinchiusi nel vetro con i loro completi macchiati e i vestiti rovinati: si odiava perché stava guardando, eppure non riusciva a distogliere lo sguardo.

Mister Croup sorrise, come un serpente che tenta di inghiottire una falce di luna, cosa che aumentava ulteriormente la sua somiglianza con i Cadaveri trafugati dal numero 1 al numero 30. «Cosa?» disse il sorridente mister Croup. «Nessun signor Marchese ’So tutto e quanto sono intelligente’? Nessuna ’Oh, non te l’avevo detto? Accidenti! Non posso salire’ Hunter?» Fece una pausa, per ottenere un effetto drammatico. C’era qualcosa del prosciutto marcio in mister Croup. «Cospargetemi il capo di cenere e datemi del lupo cattivo se questi non sono due agnellini sperduti, tutti soli, fuori dopo il tramonto.»

«Può dare del lupo anche a me, mister Croup» disse mister Vandemar, servizievole.

Mister Croup scese dal suo plinto. «Una parolina gentile nelle vostre orecchiette confuse, piccoli agnellini» disse. Richard si guardò intorno. Doveva pur esserci un posto dove scappare. Allungò la mano e afferrò quella di Porta, continuando a cercare disperatamente con lo sguardo.

«No, vi prego. Restate dove siete» disse mister Croup. «Ci piacete cosi, e non vogliamo essere costretti a farvi del male.»

«Si che lo vogliamo» intervenne mister Vandemar.

«Be’, d’accordo, mister Vandemar, se vuole metterla in questi termini. Vogliamo fare del male a entrambi. Vogliamo farvi decisamente molto male. Ma non è per questo che siamo qui ora. Siamo qui per rendere le cose più interessanti. Vedete, quando le cose si fanno noiose, il mio socio e io diventiamo irrequieti e, per quanto possa risultarvi difficile crederlo, perdiamo il nostro carattere deliziosamente solare.»

Mister Vandemar mostrò i denti, a riprova del carattere deliziosamente solare. Era senza dubbio la cosa più orribile che Richard avesse mai visto.

«Lasciateci soli» disse Porta, con voce chiara e ferma.

Richard le strinse la mano. Se riusciva a essere cosi coraggiosa, poteva esserlo anche lui. «Se volete farle del male» annunciò «dovrete prima uccidere me.»

Mister Vandemar parve sinceramente compiaciuto all’idea. «Benissimo» disse. «Grazie.»

«E faremo del male anche a te» disse mister Croup.

«Non ancora, però» aggiunse mister Vandemar.

«Vedete,» spiegò mister Croup con una voce che pareva burro rancido, «in questo momento siamo qui solo per spaventare la ragazzina.»

La voce di mister Vandemar era un vento notturno che soffia su un deserto di ossa. «Farti soffrire» disse. «Rovinarti la giornata.»

Mister Croup si sedette alla base del plinto di mister Vandemar. «Siete andati in visita alla Corte del Conte, oggi» disse, in quello che Richard sospettava essere un tono lieve e familiare.

«E allora?» disse Porta. Si stava lentamente allontanando dai due.

Mister Croup sorrise. «Come facciamo a saperlo? Come sapevamo dove trovarti?»

«Ti possiamo prendere in qualunque momento» disse mister Vandemar, quasi in un sospiro.

«Sei stata venduta, piccola coccinella» disse mister Croup, rivolto solo e unicamente a Porta. «C’è un traditore nel tuo nido. Un cuculo.»

«Andiamo!» disse la ragazza. E si mise a correre.

Richard correva con lei, nella sala con le cianfrusaglie, verso una porta. Che al tocco di Porta si apri.

«Mandi loro un saluto, mister Vandemar» disse la voce di mister Croup, un po’ più lontana.

«Addio» disse mister Vandemar.

«No-no» corresse mister Croup. «Au revoir.»

E allora fece un suono — il cu-cù cu-cù che potrebbe fare un cuculo se fosse alto un metro e settanta e avesse una predilezione per la carne umana — mentre mister Vandemar, fedele alla propria natura, piegava all’indietro il testone e ululava come un lupo, spettrale, selvaggio e pazzo.

Erano fuori, all’aria aperta, nella notte, e correvano lungo un marciapiede. Richard cominciava a pensare che il cuore gli sarebbe schizzato dal petto per la violenza con cui batteva. Vennero superati da una grossa auto scura.

Il British Museum era al di là di un’alta cancellata dipinta di nero. Discrete luci nascoste illuminavano l’esterno del grande palazzo bianco, le colonne, i gradini e i muri.

Arrivarono a un cancello, che Porta afferrò con entrambe le mani, spingendo. Non accadde nulla.

«Non riesci ad aprirlo?» chiese Richard.

«Cosa ti sembra stia cercando di fare?» rispose seccamente la ragazza.

All’ingresso principale a qualche metro di distanza, stavano arrivando dei gran macchinoni da cui scendevano coppie eleganti che proseguivano a piedi verso il museo.

«Laggiù» disse Richard. «L’ingresso principale.»

Porta annui, poi si guardò alle spalle.

«Si direbbe che non ci stiano seguendo» disse. Si affrettarono verso il cancello aperto.

«Stai bene?» chiese Richard. «Cosa è successo?»

Porta quasi spari nella giacca di pelle. Era pallida e aveva dei semicerchi scuri sotto gli occhi.

«Sono stanca» disse con tono piatto. «Ho aperto troppe porte oggi. Consumo energia ogni volta e mi serve un po’ di tempo per recuperare. Qualcosa da mangiare e sono a posto.»

Al cancello c’era una guardia che esaminava minuziosamente gli inviti istoriati che ognuno degli uomini ben rasati e in smoking e delle signore profumate in abito da sera doveva presentare, per spuntarne i nomi sulla lista prima di farli entrare. Accanto a lui, un poliziotto in uniforme osservava inflessibile gli ospiti.