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Porta apri gli occhi. L’uscio si stava aprendo, piano piano; trattenne il fiato.

Dei passi, felpati sul selciato. Magari non si accorge di me, pensò. Magari se ne va. E poi pensò, disperata, Ho fame.

I passi esitarono. Era ben nascosta, ne era certa, sotto un mucchio di giornali e di stracci. Ed era possibile che l’intruso non volesse farle del male. Potrà sentire il mio cuore che batte forte? Poi i passi si avvicinarono, e lei sapeva cosa doveva fare, anche se aveva paura.

Una mano strappò via la copertura che la riparava, e si trovò a fissare un viso inespressivo che si contrasse in un ghigno feroce. Rotolò su un fianco raggomitolata su se stessa, e la lama del coltello rivolto al suo petto la raggiunse invece al braccio.

Fino a quel momento non aveva mai pensato di riuscire a farlo. Mai creduto di poter essere abbastanza coraggiosa, o impaurita o disperata da osare. Ma allungò una mano, la posò sul petto di lui, e apri…

Era umido, caldo e scivoloso; strisciò e barcollò per liberarsi dal peso dell’uomo, poi, con passo incerto, lasciò quel luogo.

Giunta nel lungo e stretto tunnel esterno, trattenne il respiro mentre si appoggiava pesantemente al muro, sfinita e singhiozzante.

Era allo stremo delle forze. Aveva dato fondo alle proprie energie. La spalla cominciava a pulsare dolorosamente. Il coltello, pensò. Ma era salva.

«Oh perbacco, perbacco» disse una voce nel buio alla sua destra. «È sopravvissuta al signor Ross. Chi l’avrebbe mai detto, mister Vandemar.» La voce aveva un suono di fanghiglia melmosa.

«Neppure io l’avrei mai detto, mister Croup» disse una voce piatta alla sua sinistra.

Accesero una luce tremolante. «Tuttavia» aggiunse mister Croup, gli occhi lampeggianti nell’oscurità sotterranea, «a noi non sopravviverà.»

Porta gli diede una ginocchiata, forte, all’inguine: senti qualcosa contorcersi sotto gli abiti e si mise a correre, tenendosi la spalla sinistra con la mano destra.

E continuò a correre.

«Dick?»

Richard allontanò da sé l’interruzione con un gesto della mano. Teneva la propria vita quasi sotto controllo, ormai. Ancora soltanto qualche minuto…

Garry ripeté il suo nome. «Dick? Sono le sei e trenta.»

«Sono cosa

Fogli, penne, tabulati e troll vennero scaraventati nella ventiquattr’ore di Richard, che la chiuse e scappò via.

Mentre si dirigeva verso l’uscita si infilò il soprabito. Con Garry alle calcagna. «Allora, andiamo a bere qualcosa?»

«Bere?»

«Dovevamo uscire insieme stasera per discutere del rendiconto Merstham. Ricordi?»

Era per stasera? Richard si fermò un istante. Se mai, decise, avessero ammesso la disorganizzazione come sport olimpico, di certo avrebbe potuto degnamente rappresentare l’Inghilterra.

«Garry,» disse «mi dispiace. Ho fatto confusione. Questa sera devo vedere Jessica. Portiamo fuori a cena il suo capo.»

«Il signor Stockton? Degli Stockton? Quello Stockton?»

Richard annui.

Si precipitarono giù dalle scale.

«Sono certo che ti divertirai» commentò Garry. «E come sta il Mostro della Laguna Nera?»

«Per essere precisi, Garry, Jessica è di Ilford. Ed è sempre la luce e l’amore della mia vita, grazie per avermelo chiesto.»

A quel punto erano arrivati nell’atrio e Richard si lanciò verso la porta automatica, che clamorosamente non si apri.

«Sono passate le sei, signor Mayhew» spiegò il signor Figgis, la guardia addetta alla sicurezza del palazzo. «Deve firmare il registro con l’ora di uscita.»

«Ci mancava anche questo,» disse Richard senza rivolgersi a qualcuno in particolare, «ci mancava proprio.»

Il signor Figgis odorava vagamente di sciroppo per la tosse e di lui si raccontava da più parti che possedesse una collezione di giornaletti porno a dir poco enciclopedica. Sorvegliava il portone con una diligenza quasi maniacale, non essendo ancora riuscito a dimenticare la sera in cui la costosa attrezzatura informatica di un intero piano aveva alzato i tacchi e preso il volo, insieme a due vasi di palme e al tappeto Axminster dell’amministratore delegato.

«Quindi la nostra uscita è rimandata?»

«Mi dispiace, Garry. Ti va bene lunedi?»

«Certo. Lunedi va benissimo. Allora ci vediamo lunedi.»

Il signor Figgis controllò le firme e si accertò che non avessero con sé computer, vasi di palme o tappeti, dopo di che premette un pulsante sotto la sua scrivania e la porta si apri.

«Porte» commentò Richard.

La strada sotterranea si biforcava e si diramava; scelse una direzione a caso, tuffandosi nei tunnel, correndo, inciampando e muovendosi a zig zag.

Dietro di lei bighellonavano mister Croup e mister Vandemar, rilassati e contenti come stessero visitando la grande esposizione del Crystal Palace.

Quando giunsero a un incrocio, mister Croup si chinò, trovò la più vicina traccia di sangue e la seguirono.

Erano come iene, che portano allo sfinimento la propria preda. Loro potevano aspettare. Loro avevano tutto il tempo del mondo.

Per una volta la fortuna era dalla parte di Richard. Prese un taxi guidato da un tassista particolarmente entusiasta che lo portò a casa seguendo un itinerario insolito che prevedeva strade della cui esistenza Richard non si era mai accorto. Scese di corsa dal taxi, lasciando una buona mancia e la ventiquattr’ore, riuscì a fare cenno all’autista che si fermò appena prima di infilarsi in un viale di scorrimento e recuperò la borsa, quindi sali le scale a razzo e si fiondò nel suo appartamento.

Quando entrò in sala si stava già togliendo i vestiti: la borsa attraversò la stanza roteando e fece un attcrraggio di fortuna sul divano; prese le chiavi e le appoggiò con cura sul tavolino all’ingresso, in modo da non dimenticarle.

Poi corse in camera da letto.

Il cicalino del citofono squillò.

Richard, vestito per tre quarti del suo completo migliore, si lanciò a rispondere.

«Richard? Sono Jessica. Spero che tu sia pronto.»

«Oh, si. Arrivo subito.»

Infilò il soprabito e corse via, sbattendo la porta dietro di sé.

Jessica lo stava aspettando in fondo alle scale. Lo aspettava sempre li. A lei non piaceva l’appartamento di Richard: la faceva sentire femminilmente a disagio. C’era sempre la possibilità di trovare un paio di mutande, be’, praticamente ovunque, per non parlare dei blocchi serpeggianti di dentifricio indurito cementati sul lavandino del bagno: no, non era proprio un posto da Jessica.

Jessica era molto bella; al punto che a Richard capitava di ritrovarsi a guardarla chiedendosi come ha fatto a mettersi con me?

E quando facevano l’amore — cosa che accadeva nell’appartamento di Jessica nella zona di Barbican, nel letto di ottone di Jessica con le gelide lenzuola di lino bianco (i genitori di Jessica le avevano detto che i piumini erano démodé) — dopo, al buio, lei lo abbracciava stretto, i lunghi riccioli bruni scompigliati a coprirgli il petto, e gli sussurrava quanto lo amava, mentre lui a sua volta le diceva di amarla e di voler stare con lei per sempre, e entrambi ci credevano.

«Santo cielo, mister Vandemar. Sta rallentando.»

«Rallentando, mister Croup.»

«Deve perdere molto sangue, mister V.»

«Sangue delizioso, mister C. Tiepido sangue delizioso.»

«Non ci vorrà molto.»

Un click: il rumore di un coltello a serramanico che si apre, vuoto, solo e buio.