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In Giappone, aveva saputo con assoluta certezza, avrebbe trovato la sua terapia. A Chiba. O in una clinica legale oppure nel sottobosco della medicina abusiva. Sinonimo d’innesti, giunzioni neurali e microbionica, Chiba era una calamità per le sottoculture tecno-criminali dello Sprawl.

A Chiba aveva visto svanire in due mesi di consulti e di esami i suoi nuovi yen. Gli esperti delle cliniche clandestine, la sua ultima speranza, avevano ammirato la maestria con cui l’avevano menomato, poi avevano scosso lentamente la testa.

Adesso dormiva negli alberghi-bara più economici, quelli vicini al porto, alla luce dei riflettori alogeni che rischiaravano i moli tutta la notte come fossero enormi palcoscenici, là dove non si potevano vedere le luci di Tokyo a causa del bagliore del cielo televisivo, neppure il torreggiante ologramma della Fuji Electric Company, e la baia di Tokyo era una nera distesa in cui i gabbiani volteggiavano sopra masse di bianco polistirolo espanso alla deriva. Dietro al porto iniziava la città, le cupole delle fabbriche dominate dagli enormi cubi delle arcologie delle multinazionali. Il porto e la città erano separati da una stretta linea di confine fatta di strade più vecchie, un’area che non aveva un nome ufficiale. Night City, con Ninsei nel suo cuore. Durante il giorno i bar di Ninsei erano chiusi e anonimi, i neon spenti, gli ologrammi inerti, in attesa sotto il velenoso cielo argento.

Due isolati a ovest del Chat, in un locale chiamato Jarre de The, Case mandò giù la prima pillola della notte con un doppio espresso. Era un ottagono rosa, un tipo molto potente di dexe brasiliana che aveva comperato da una delle ragazze di Zone.

Lo Jarre aveva le pareti rivestite di specchi, ogni pannello incorniciato da neon rosso.

Sulle prime, trovandosi solo a Chiba, con pochi soldi e meno speranze di trovare una cura, s’era lasciato prendere da un orgasmo irrefrenabile e aveva tentato di procurarsi denaro fresco con una gelida determinazione che gli era sembrata appartenere a qualcun altro. Durante il primo mese aveva ucciso due uomini e una donna per somme che fino a un anno prima gli sarebbero parse irrisorie. Ninsei l’aveva logorato al punto che la strada stessa gli era parsa l’estrinsecazione di una pulsione di morte, un veleno nascosto che non aveva mai saputo di portare con sé.

Night City era come un esperimento deragliato di darwinismo sociale, concepito da un ricercatore annoiato che tenesse un pollice in permanenza sul pulsante dell’avanti-veloce. Se smetti un attimo di farti largo a spintoni, affondi senza lasciare traccia; muoviti un po’ troppo alla svelta e finirai per spezzare la fragile tensione di superficie della borsa nera; in entrambi i casi sparirai senza che di te rimanga traccia alcuna, salvo un vago ricordo nella mente di un’istituzione come Ratz, anche se il cuore, i polmoni o i reni potranno sopravvivere al servizio di qualche sconosciuto fornito di un sacco di nuovi yen per i serbatoi delle cliniche.

Qui gli affari erano un costante ronzio subliminale, e la morte la punizione accettata per la pigrizia, la negligenza, la mancanza di grazia, l’incapacità di rispettare le esigenze di un intricato protocollo.

Solo a un tavolo dello Jarre de The, con il piccolo ottagono che cominciava a fare effetto, il sudore come punte di spillo che cominciavano a imperlargli il palmo delle mani, conscio d’un tratto del pizzicore d’ogni singolo pelo sulle braccia e sul torace, Case capì di aver cominciato in un momento imprecisato un gioco con se stesso, un gioco molto antico, senza nome, un solitario finale.

Non girava più armato, non prendeva più le precauzioni basilari. Gestiva gli affari più rapidi e spregiudicati sulla pubblica piazza e aveva ormai la fama di uno che riesce a ottenere qualunque cosa. Una parte di lui sapeva che la parabola della propria autodistruzione appariva d’una ovvietà abbagliante ai suoi clienti, i quali diventavano sempre più rari, ma quella stessa parte di lui si crogiolava nella consapevolezza che era soltanto questione di tempo. E quella era la parte, gongolante nell’attesa della morte, che maggiormente odiava il ricordo di Linda Lee.

L’aveva trovata, in una sera di pioggia, in una sala giochi.

Sotto fantasmi di vivida luce che ardevano in mezzo alla nebbiolina azzurra del fumo delle sigarette, ologrammi di Wizard’s Castle, Tank War Europa, New York Skyline… E adesso la ricordava in quel modo, il volto bagnato dall’incessante luce al laser, i lineamenti ridotti a un codice: gli zigomi che avvampavano scarlatti mentre il castello del mago bruciava, la fronte s’inondava di azzurro quando Monaco cadeva durante Tank War, la bocca dipinta d’oro fuso quando un cursore planante strisciava contro la parete d’un canyon di grattacieli, sprizzando scintille. Quella sera lui era al settimo cielo grazie a un pane di ketamina contrattato per conto di Wage e in viaggio per Yokohama, con i soldi già in tasca. S’era infilato là sotto per ripararsi dalla pioggia tiepida che sfrigolava sui marciapiedi di Ninsei, e per qualche motivo quella faccia, fra le decine impietrite davanti alle consolle, smarrita nel gioco, l’aveva colpito. La sua espressione in quel momento era la stessa che avrebbe visto, molte ore più tardi, sul suo volto addormentato in un albergo-bara dalle parti del porto, il labbro superiore simile alla linea che i bambini disegnano per raffigurare un uccello in volo.

Una volta attraversata la sala per portarsi accanto a lei, in tiro per l’affare che aveva appena concluso, l’aveva vista sollevare lo sguardo. Occhi grigi cerchiati da una sbavatura nera di kajal. Gli occhi di un animale inchiodato dai fanali di un veicolo in arrivo.

La loro notte insieme protrattasi fino al mattino, fino ai biglietti all’hoverporto e al suo primo viaggio attraverso la baia. La pioggia aveva continuato a cadere, lungo Harajuku, formando perle sulla sua giacca di plastica, mentre i bambini di Tokyo passavano intruppati con mocassini bianchi e mantelline aderenti davanti alle boutique famose, fino a quando non si era trovata con lui in mezzo al baccano di mezzanotte di una sala pachinko e gli aveva tenuto la mano come può fare un bambino.

C’era voluto un mese al guazzabuglio di droghe e di tensioni in mezzo alle quali Case viveva per trasformare quegli occhi perpetuamente sorpresi in liquidi pozzi di bisogno riflesso. Lui aveva osservato quella personalità frammentarsi, staccarsi come grossi pezzi d’iceberg, tante schegge galleggianti che andavano alla deriva, e alla fine aveva visto la cruda necessità, la famelica armatura della dipendenza. L’aveva osservata cercare il prossimo buco con una spasmodica concentrazione che gli ricordava le mantidi in vendita sulle bancarelle lungo la Shiga, accanto a vasche di carpe azzurre mutanti e grilli imprigionati nelle gabbiette di bambù.

Fissò l’anello nero lasciato dai fondi di caffè nella tazza vuota. Vibrava davanti ai suoi occhi a causa dello speed che s’era sparato. Il bruno laminato della superficie del tavolo era opaco a causa della patina di graffi. Con la dexe che gli stava salendo lungo la spina dorsale, ebbe la precisa consapevolezza del numero degli urti e dei colpi necessari a creare una patina del genere. Lo Jarre era arredato con lo stile antiquato e anonimo del secolo precedente, uno strano miscuglio di giapponese tradizionale e pallido vinile milanese, ma ogni cosa pareva coperta da una pellicola sottile, come se i nervi malati di un milione di clienti avessero in qualche modo aggredito le, un tempo lucide, superfici a specchio, lasciando ogni ripiano annebbiato da qualcosa che non avrebbe mai più potuto essere rimosso.

— Ehi, Case, amico mio…

Quando Case sollevò lo sguardo, incontrò un paio d’occhi grigi cerchiati di ombretto. Indossava una mimetica orbitale francese sbiadita e un paio di scarpette da tennis bianche, nuove fiammanti.

— Ti stavo cercando, amico. — Prese posto sulla sedia di fronte, i gomiti sul tavolo. Le maniche della tuta azzurra con la cerniera erano state strappate all’altezza delle spalle. Lui controllò automaticamente le braccia cercando i segni dell’ago. — Vuoi una sigaretta?