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Ma adesso il buio era totale, e c’era soltanto quel rumore… il fragore della risacca. Lottò per risollevarsi in piedi e cercò di ripercorrere i suoi passi.

Il tempo passò. Continuò a camminare.

E poi eccolo, un bagliore che diventava più distinto a ogni passo. Un rettangolo. Una porta.

— C’è un fuoco acceso là dentro — disse, le sue parole lacerate dal vento.

Era un bunker, di pietra o cemento, sepolto da dune di sabbia scura. L’entrata era bassa, stretta, priva di battenti, e profondamente incassata in una parete spessa almeno un metro. — Ehi — chiamò Case con un filo di voce. — Ehi… — Le sue dita sfiorarono la parete fredda. C’era un fuoco là dentro, delle ombre in movimento ai lati dell’ingresso.

Si chinò più che poteva e con tre passi valicò la soglia.

Una ragazza era rannicchiata accanto a una forma d’acciaio arrugginito, una specie di focolare nel quale stava bruciando della legna raccolta sulla spiaggia. Il vento risucchiava il fumo attraverso un camino tutto ammaccato. Il fuoco era l’unica fonte di luce, e quando il suo sguardo incontrò quegli occhi grandi e sorpresi Case riconobbe la benda intorno alla testa, una sciarpa annodata, stampata con un disegno che riprendeva l’ingrandimento d’un circuito stampato.

Rifiutò il suo abbraccio, quella notte, rifiutò il cibo che lei gli offriva, in quel nido di coperte e di termopiuma sminuzzata. Alla fine Case s’accucciò accanto alla porta e la guardò mentre dormiva, ascoltando il vento che raschiava le pareti della struttura. Ogni ora o giù di lì si alzò per andare a quel focolare improvvisato, aggiungendo al fuoco dell’altra legna presa dalla pila lì accanto. Niente di tutto ciò era reale, ma il freddo era il freddo…

Lei non era reale, acciambellata sul fianco al bagliore delle fiamme. Case osservò la bocca, le labbra leggermente socchiuse. Era la ragazza che ricordava dal suo viaggio dall’altra parte della baia, che crudeltà.

— Brutto figlio di troia — bisbigliò rivolto al vento. — Non vuoi correre rischi, vero? Non mi daresti mai una drogata qualsiasi, eh? So cos’è questo… — Cercò di scacciare la disperazione dalla voce. — Lo so, capisci? So chi sei. Tu sei l’altro. 3Jane l’ha detto a Molly. Il roveto ardente: quello non era Invernomuto, eri tu. Lui ha tentato di avvertirmi con il Braun. Adesso mi hai ridotto a una linea piatta, mi hai portato qui. Da nessuna parte, insieme a un fantasma. Come io la ricordo che era un tempo…

La ragazza si agitò nel sonno, dicendo qualcosa, tirandosi un lembo di coperta sulla spalla e sulla guancia.

— Non sei niente — disse alla ragazza addormentata. — Sei morta, e comunque per me significavi soltanto un merdoso niente e basta. Mi hai sentito, socio? So cosa stai facendo. Sono encefalogramma piatto. Ci sono voluti soltanto venti secondi per riuscirci, giusto? Sono a terra in quella biblioteca, e il mio cervello è morto. E molto presto sarà morto davvero, capisci? Non vuoi che Invernomuto porti a termine il suo maledetto piano, ecco, così ti basta tenermi qui. Dixie manovrerà il Kuang, ma è morto e tu puoi prevedere le sue mosse, sicuro. Questa stronzata con Linda, già, tutta opera tua, vero? Invernomuto ha cercato di usarla quando mi ha risucchiato dentro il costrutto di Chiba, ma non c’è riuscito. Ha detto che era troppo difficile. Sei stato tu a spostare le stelle là nel Freeside, vero? Sei stato tu a mettere la sua faccia sul pupazzo morto nella stanza di Ashpool. Molly non l’ha mai visto. Tu hai rimontato il segnale del suo simstim. Perché pensi di potermi ferire. Perché pensi che m’importi qualcosa. Be’, vai a farti fottere, qualunque sia il nome con cui ti fai chiamare. Hai vinto. Sei il vincitore. Ma niente di tutto questo significa qualcosa per me, a questo punto. Tu credi che invece me ne freghi parecchio. Ma allora, perché mi fai questo? E in questo modo? — Tremava di nuovo, la sua voce si era fatta stridula.

— Tesoro, vieni a dormire. Io mi alzo, se vuoi. Ma tu devi dormire, d’accordo? — disse la ragazza, sollevandosi dalle coperte sbrindellate. Il suo accento strascicato era accentuato dal sonno. — Dormi e basta, d’accordo?

Quando si svegliò, lei se n’era andata. Il fuoco era spento, ma dentro il bunker faceva caldo, la luce del sole entrava obliqua dalla porta proiettando un irregolare rettangolo dorato sul fianco sfondato d’un panciuto bidone di fibra. Era un cassone da trasporto: ricordava di averne visti di simili nei moli di Chiba. Attraverso lo squarcio sul fianco poteva vedere una mezza dozzina di sacchetti d’un giallo canarino. Alla luce del sole parevano grossi panetti di burro. Il suo stomaco si contrasse per la fame. Rotolò fuori dal mucchio di coperte, raggiunse il cassone e recuperò un sacchetto. Sbattendo le palpebre, lesse i minuscoli caratteri in una dozzina di lingue. La scritta era in fondo: RAZ. EMERG. A-PRO, “MANZO” TIPO AG-8. Un elenco dei contenuti nutritivi. Con gesti goffi ne tirò fuori un secondo. UOVA. — Se ti stai inventando tutte queste stronzate potresti anche fornire del cibo vero, no? — protestò, sarcastico. Con un pacchetto per mano attraversò le quattro stanze della struttura. Due erano vuote, a parte qualche mucchio di sabbia. Solo l’ultima conteneva altri tre container di razioni. — Sicuro — disse toccando i sigilli. — Dovrò rimanere qui un bel po’. Ho afferrato il concetto. Sicuro…

Rovistò nella stanza del focolare fino a quando trovò una tanica di plastica piena di quella che ritenne essere acqua piovana. Accanto al mucchio di coperte, a ridosso della parete, c’erano un accendisigari da quattro soldi, un coltello da marinaio con un manico verde crepato e la sciarpa della ragazza. Era ancora annodata, irrigidita dal sudore e dallo sporco. Si servì del coltello per aprire i sacchetti gialli, facendo cadere il loro contenuto nel barattolo arrugginito che aveva trovato accanto alla stufa. Vi versò l’acqua del contenitore, mescolò con le dita la poltiglia risultante e mangiò. Aveva un vago sapore di manzo. Quand’ebbe finito la sbobba, buttò il barattolo nel focolare e uscì.

Era pomeriggio avanzato, a giudicare dall’angolazione dei raggi del sole. Quando si sfilò con un calcio le umide scarpe di nylon rimase sorpreso dal calore della sabbia. Alla luce del giorno la spiaggia era grigio e argento. Il cielo era azzurro, privo di nubi. Girò l’angolo del bunker per incamminarsi verso le onde, lasciando cadere la giacca sulla sabbia. — Non so di chi siano i ricordi che stai usando per questo — disse quand’ebbe raggiunto l’acqua. Si sfilò i jeans e li buttò con un calcio nell’acqua bassa, facendoli seguire dalla maglietta e dalle mutande.

— Cosa stai facendo, Case?

Si girò, e la vide a dieci metri, sulla riva. La schiuma bianca le scorreva tra le caviglie.

— Ieri sera mi sono pisciato addosso — rispose.

— Be’, allora non potrai rimetterli in quello stato. L’acqua di mare ti farà venire le piaghe. Adesso ti mostro la pozza fra gli scogli. — Con un gesto vago gliel’indicò alle sue spalle. — È dolce. — La sbiadita mimetica francese era stata rimboccata sopra il ginocchio. La pelle sottostante era liscia e abbronzata. La brezza le scompigliò i capelli.

— Senti, avrei una domanda da farti — disse Case, raccogliendo i propri indumenti e incamminandosi verso di lei. — Non voglio sapere cosa stai facendo qui. Ma esattamente cosa pensi che io stia facendo qui? — Si fermò. Una gamba nera e inzuppata dei jeans gli sbatté contro il fianco nudo.

— Sei arrivato ieri sera — rispose lei con un sorriso.

— E questo ti basta? Che io sia arrivato?

— Lui ha detto che saresti venuto — fece lei, arricciando il naso. Si strinse nelle spalle. — Immagino che sia esperto di cose del genere. — Sollevò il piede sinistro e si sfregò il sale dall’altra caviglia, una mossa goffa, infantile. Gli sorrise di nuovo, più titubante. — Adesso rispondi tu a una mia domanda. Ti va?