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— Non farlo, Case.

— Mi è parso di vedere qualcosa quando sono arrivato. Una città in fondo alla spiaggia. Ma ieri non c’era più. L’hai mai vista? — Sollevò con un breve strattone la lampo e iniziò a districare l’impossibile nodo alle stringhe delle scarpe per poi scaraventarle in un angolo.

La ragazza annuì, con gli occhi bassi. — Sì… qualche volta la vedo.

— Vai mai laggiù, Linda? — Case s’infilò la giacca.

— No, ma ci ho provato. Dopo che sono arrivata, ed ero tanto annoiata. Comunque m’era parso che fosse una città, così forse avrei potuto trovarci un po’ di merda, roba pesante, sai. — Fece una smorfia. — Non è che stessi male, per niente, la volevo e basta. Così, ho sbattuto del cibo in un barattolo, l’ho annaffiato ben bene d’acqua e l’ho allungato parecchio, dato che non avevo un altro barattolo per l’acqua. Poi ho camminato tutto il giorno, e talvolta riuscivo a vederla, la città, e non pareva nemmeno troppo lontana. Ma non si è mai avvicinata. E poi, finalmente, era più vicina, e ho visto cos’era. Quel giorno, a un certo punto, mi è parso che fosse in macerie, e forse non c’era nessuno. In altri momenti, invece, mi è parso di vedere come dei riflessi su una macchina, un’automobile o qualcosa del genere… — La sua voce si affievolì.

— Che c’e?

— Questa cosa. — Lei indicò con un gesto il focolare, le pareti scure, la luce dell’alba che delineava la porta. — Questa cosa dove viviamo noi. Diventa più piccola, Case, più piccola a mano a mano che ti avvicini.

Lui si soffermò un’ultima volta accanto alla porta. — L’hai chiesto al tuo ragazzo?

— Sì. Ha detto che non avrei capito, che sprecavo solo il mio tempo. Ha detto che era come… come un evento. E che quello era il nostro orizzonte. L’orizzonte degli eventi, come l’ha chiamato.

Quelle parole non significavano niente per Case. Lasciò il bunker e si avventurò fuori alla cieca, comunque, in qualche modo lo capiva, allontanandosi dal mare. Adesso i geroglifici scorrevano veloci sulla sabbia, gli scappavano da sotto i piedi, si ritraevano da lui a mano a mano che avanzava. — Ehi, si sta frantumando. Scommetto che lo sai anche tu. Che cos’è? Il Kuang? L’icebreaker cinese che sta aprendo un buco nel tuo cuore e lo divora. Forse il Flatline non si lascia menare per il naso, eh?

La sentì che chiamava il suo nome. Quando si voltò vide che lo stava seguendo, senza cercare di raggiungerlo, la lampo rotta della mimetica che le sbatteva contro il ventre abbronzato, i peli pubici inquadrati dal tessuto lacerato. Pareva una delle ragazze delle vecchie riviste di Finn alla Metro Holografix, tornata miracolosamente in vita. Soltanto che lei era stanca, triste e umana, l’indumento lacerato era patetico mentre incespicava sopra i grumi di alghe marine inargentate dal sale.

E poi, in qualche modo, si trovarono in mezzo alla risacca, tutti e tre, e le gengive del ragazzo erano grandi e d’un rosa acceso sullo sfondo del volto bruno e sottile. Indossava un paio di calzoncini incolori e sbrindellati, braccia e gambe troppo magre contro l’azzurro grigio carezzevole della marea.

— Ti conosco — disse Case. Linda gli era accanto.

— No — replicò il ragazzo con voce acuta e musicale. — Tu non mi conosci.

— Tu sei l’altra IA. Tu sei Rio. Tu sei quello che vuol fermare Invernomuto. Come ti chiami? Il tuo codice di Turing? Qual è?

Il ragazzo fece una piroetta nella risacca, scoppiando a ridere, camminò sulle mani, poi schizzò fuori dall’acqua. I suoi occhi erano quelli di Riviera, ma non c’era nessuna malizia in essi. — Per evocare un demone devi imparare il suo nome. Un tempo gli uomini l’hanno sognato, ma adesso è vero in modo diverso. Tu lo sai bene, Case. È il tuo mestiere quello di apprendere i nomi dei programmi, i lunghi nomi formali, i nomi che i proprietari cercano di nascondere. I nomi veri…

— Un codice di Turing non è il tuo nome.

— Neuromante — disse il ragazzo, socchiudendo i lunghi occhi grigi per proteggerli dal sole che stava sorgendo. — Il sentiero che porta alla terra dei morti. Dove ti trovi tu, amico mio. Marie-France, la mia lady, è lei che ha aperto la strada, ma il suo signore l’ha soffocata prima che io potessi leggere il suo diario. Neuro, dai nervi, i sentieri d’argento. Neu… romante. Negromante. Io evoco i morti. Ma no, amico mio — e il ragazzo fece una piccola danza, i piedi bruni che stampavano impronte sulla sabbia. — Io sono i morti, e la loro terra. — Di nuovo, scoppiò a ridere. Un gabbiano stridette. — Rimani. Se la tua donna è un fantasma, non sa di esserlo. E neppure tu lo saprai.

— Stai cedendo. L’ice si sta rompendo.

— No — disse il ragazzo, d’un tratto mesto, le fragili spalle che s’ingobbivano. Sfregò il piede contro la sabbia. — È molto più semplice. Ma la scelta è tua. — Quegli occhi grigi fissarono Case con gravità. Un’ondata di nuovi simboli attraversò il suo campo visivo, una linea per volta. Dietro quella cortina il ragazzo si ondulò, come intravisto attraverso il calore che si leva dall’asfalto d’estate. Adesso la musica era più forte, e Case riusciva quasi a distinguere le melodie.

— Case, tesoro — disse Linda, e gli toccò la spalla.

— No. — Case si tolse la giacca e gliela porse. — Non so, forse sei qui. Comunque comincia a far freddo.

Si girò e si allontanò, e dopo il settimo passo chiuse gli occhi, osservando la musica che si delineava con chiarezza al centro delle cose. Si voltò una volta, malgrado non aprisse gli occhi.

Non aveva bisogno di farlo.

Erano là, accanto alla riva del mare, Linda Lee e il ragazzino magro che sosteneva di chiamarsi Neuromante. Il suo giubbotto penzolava dalla mano di Linda, sfiorando il bordo della risacca.

Continuò a camminare seguendo la musica.

Il dub zionita di Maelcum.

— Case? Amico?

La musica.

— Sei tornato, amico.

La musica gli venne tolta dalle orecchie.

— Per quanto tempo? — si sentì chiedere, accorgendosi di avere la bocca molto secca.

— Cinque minuti, forse. Troppo. Volevo staccare spina, Muto diceva di no. Lo schermo diventato strano, poi Muto detto di metterti le cuffie.

Aprì gli occhi. Ai lineamenti di Maelcum si sovrapponevano fasce di geroglifici trasparenti.

— E la tua medicina — disse Maelcum. — Due dermi.

Era disteso supino sul pavimento della biblioteca, sotto il monitor. Lo zionita l’aiutò a sollevarsi, ma il movimento lo scagliò nel selvaggio impeto della betafenetilammina, i dermi azzurri che bruciavano contro il polso sinistro. — Overdose — riuscì a dire.

— Su, forza, amico. — Le mani robuste sotto le ascelle lo sollevarono come un bambino. — Io e tu andare. Dobbiamo.

22

Il carrello di servizio stava urlando. La betafenetilammina gli regalava una voce. Non voleva saperne di smettere. Non nella galleria affollata, nei lunghi corridoi, non mentre superava la porta di vetro nero che dava sulla cripta T-A, i sotterranei dove il gelo era filtrato gradualmente nei sogni del vecchio Ashpool.

Il tragitto fu per Case un’euforia infinitamente protratta, il movimento del carrello indistinguibile dal folle impeto dell’overdose. Quando il carrello morì, finalmente, qualcosa sotto il sedile cedette, accompagnato da una pioggia di scintille incandescenti. Lo strepito cessò.

Il carrello s’arrestò a tre metri dall’imbocco della caverna privata di 3Jane.

— Quanto distante, amico? — Maelcum l’aiutò a scendere dalla macchinetta sputacchiante mentre un estintore integrale esplodeva nel vano motore. Fiotti di polvere gialla schizzarono dalle bocchette di ventilazione e dagli orifizi per la manutenzione. Il Braun rotolò giù dal sedile e s’allontanò zoppicando sulla finta sabbia, trascinandosi dietro un arto ormai inutile. — Devi camminare, amico. — Maelcum prese il deck e il costrutto, mettendosi a tracolla i cordoni antiurto.