Gli feci segno di sì.
«Lo sa com’è morto suo marito?»
«Gli hanno sparato» risposi troppo in fretta, e me ne pentii immediatamente. Lui sfruttò subito il vantaggio.
«E lo sa chi gli ha sparato?»
Non mossi un muscolo.
«Lo sa, Marc?»
«Buonanotte, detective.»
«L’ha ucciso lei, Marc, la moglie. Un proiettile in testa, sparato da distanza ravvicinata.»
«Questa è proprio una stronzata.»
«Davvero? Voglio dire, ne è proprio sicuro?»
«Se è stata lei a ucciderlo, perché non è in carcere?»
«Domanda intelligente.» Regan tornò sui suoi passi. «Forse dovrebbe chiederglielo» aggiunse, quando fu in fondo al vialetto.
26
Rachel era nel garage. Sollevò lo sguardo su di me. Mi apparve all’improvviso piccola e sul suo viso lessi la paura. Il cofano del bagagliaio era sollevato, e io mi avvicinai allo sportello del guidatore.
«Che cosa voleva?» mi chiese.
«Quello che hai detto tu.»
«Sapeva del CD?»
«Sapeva che eravamo andati all’MVD, però non ha parlato del CD.»
Salii in macchina e lei lasciò cadere l’argomento. Non era il momento di affrontare nuovi problemi, lo sapevamo entrambi. Ma ancora una volta mi trovai a mettere in discussione il mio metro di giudizio. Mia moglie era stata assassinata, mia sorella pure. Qualcuno aveva cercato di uccidermi. Volendo ridurre la questione ai suoi termini essenziali, mi stavo fidando di una donna che in realtà non conoscevo. Le stavo affidando non solo la mia vita, ma anche quella di mia figlia. Una cosa stupida, a pensarci bene. Lenny aveva ragione, non era così semplice. Effettivamente non avevo idea di chi lei fosse o di che cosa fosse diventata. Mi ero fatto delle illusioni trasformandola in qualcuno che lei non avrebbe potuto essere e ora mi chiedevo quanto mi sarebbe costato quell’errore.
La sua voce dissipò d’improvviso l’alone di incertezza che mi avvolgeva. «Marc?»
«Che c’è?»
«Sono sempre convinta che dovresti metterti quel giubbotto antiproiettile.»
«No.»
Ero stato troppo brusco. O forse no. Rachel s’infilò nel bagagliaio e chiuse il cofano dall’interno. Io misi la sacca di tela con i soldi sul sedile accanto a me, poi premetti il pulsante del telecomando della porta, fissato sotto l’aletta parasole, e misi in moto.
Cominciava l’avventura.
Quando Tickner aveva nove anni la madre gli aveva comprato un libro di illusioni ottiche. C’era, per esempio, un disegno che raffigurava un’anziana signora con un gran nasone: ma poi, guardando più attentamente, la vecchia si trasformava in una ragazza con la testa. A Tickner quel libro era piaciuto da matti. Qualche anno dopo era passato agli “Occhi Magici”, restando a fissarli fin quando in quel turbinio di colori appariva il cavallo o quel che c’era. A volte l’operazione richiedeva molto tempo, e veniva da chiedersi se effettivamente sarebbe comparso qualcosa. Poi, all’improvviso, ecco l’immagine.
In quel caso stava succedendo lo stesso.
Ci sono momenti nel corso di un’indagine, lo sapeva bene, in cui tutto risulta alterato come in quelle vecchie illusioni ottiche. Guardi una realtà ed è sufficiente un leggero spostamento perché questa cambi. Nulla è come appare.
Tickner non aveva mai accettato le varie teorie sul caso Seidman, assomigliavano troppo a un libro a cui mancasse qualche pagina.
Non aveva avuto a che fare con molti omicidi, nella sua carriera, perché di solito venivano lasciati alla polizia locale. Ma conosceva moltissimi investigatori che si occupavano di omicidi e i migliori erano sempre quelli un po’ spostati, dal temperamento eccessivamente melodrammatico e dalla fantasia talmente sfrenata da rasentare il ridicolo. Tickner li aveva uditi parlare di un certo momento, durante le indagini, nel quale la vittima “allunga un braccio” dalla tomba. La vittima in qualche modo “parla” e indica con la mano l’assassino. Lui ascoltava quelle assurdità e annuiva educatamente. Gli sembravano delle esercitazioni iperboliche, frasi prive di senso che i poliziotti dicono perché la gente se le beve con avidità.
La stampante continuava a ronzare. Tickner aveva già visto dodici foto.
«Quante ce ne sono ancora?» chiese.
Dorfman fissò lo schermo del computer. «Sei.»
«Come queste?»
«Più o meno. Voglio dire, sempre della stessa persona.»
L’agente speciale abbassò lo sguardo sulle foto. In tutte effettivamente compariva la stessa persona ed erano in bianco e nero, scattate all’insaputa del soggetto e probabilmente da una certa distanza, con il teleobiettivo.
La storia del braccio che spunta dalla tomba non sembrava più tanto stupida. Monica Seidman era morta da diciotto mesi e il suo assassino era in libertà. E adesso che ogni speranza di identificarlo era stata abbandonata sembrava che lei si fosse alzata dalla tomba puntando un dito. Tickner guardò un’altra volta, cercando di capire.
Il soggetto di quelle foto, la persona che Monica Seidman stava indicando era Rachel Mills.
Quando imbocchi in direzione nord il raccordo orientale della New Jersey Turnpike, ti sembra che lo skyline notturno di Manhattan brilli soltanto per te. Come per tutti coloro che la vedono quasi ogni giorno, per me quella era un tempo un’immagine scontata. Ora non più. Dopo l’11 settembre per un po’ mi è sembrato di vedere ancora le Torri. Erano come delle luci intense fissate troppo a lungo, così che, chiudendo gli occhi, rimanevano per qualche tempo fissate nella retina. Ma come le macchie solari anche quelle immagini alla fine svanivano. Ora è diverso. Quando percorro questa strada guardo sempre di proposito, e lo stavo facendo anche quella sera, ma a volte non riesco a ricordare esattamente dove sorgevano le Torri. E questo mi manda in bestia più di quanto riesca a spiegare a parole.
Imboccai, come faccio sempre, la carreggiata inferiore del George Washington Bridge, e a quell’ora non c’era traffico. Al casello oltrepassai il Telepass e riuscii a distrarmi. Alla radio incappai in due stazioni in cui non facevano che parlare. La prima era una di quelle che trasmettono soltanto sport, e un sacco di uomini che si chiamavano tutti Vinny da Bayside telefonavano per lamentarsi della mediocrità degli allenatori e per dire che loro avrebbero saputo fare molto meglio quel lavoro. Nell’altra c’erano due imitatori penosi di Howard Stern, che trovavano particolarmente divertente la scenetta di una matricola di college che telefona alla madre per annunciarle di avere un tumore ai testicoli. Per quanto non fossero divertenti, mi aiutarono a distrarmi un po’.
Rachel era nel bagagliaio, il che, a pensarci bene, era totalmente folle. Presi il cellulare, premetti il tasto di chiamata e udii subito la voce metallica. «Prendi la Henry Hudson in direzione nord.»
Mi portai l’apparecchio alla bocca, come fosse stato un walkie-talkie. «Okay.»
«Avvertimi appena arrivi all’Hudson.»
«D’accordo.»
Mi spostai sulla corsia di sinistra. La zona mi era abbastanza familiare, avevo vinto una borsa di studio per un corso post-laurea al New York Presbyterian, che si trova dieci isolati più a sud. Zia e io avevamo diviso un appartamento con Lester, un cardiologo, in un edificio art déco situato in fondo a Fort Washington Avenue, nella parte più settentrionale di Manhattan. Quando ci abitavo io, quella zona era conosciuta come il punto più a nord di Washington Heights, ma da qualche tempo mi sono accorto che le agenzie immobiliari l’hanno ribattezzata “Hudson Heights” per differenziarla, sia nel nome sia nel valore commerciale, dalle sue umili radici.
«Okay, sono sull’Hudson» dissi.
«Prendi la prossima uscita.»
«Fort Tryon Park?»
«Sì.»
Anche quell’area non mi era nuova. Fort Tryon sembra sospeso come una nuvola sul fiume Hudson, è un dirupo tranquillo e frastagliato, con il New Jersey a ovest e il Riverdale-Bronx a est. Il parco è un miscuglio di panorami diversi: sentieri di pietra ruvida, fauna di un’era ormai passata, terrazze di pietra, recessi di mattoni e cemento, fitta vegetazione, pendii di roccia, erba. D’estate trascorrevo giorni e giorni sui suoi prati verdi, in pantaloncini e maglietta, insieme a Zia e a qualche testo di medicina intonso. Mi piaceva in particolare prima del tramonto, d’estate. Quella luce arancione che inonda il parco ha un che di etereo.