Quella voce familiare veniva da destra. Era quella di Regan.
Ma che?… «Ascolti, venga con me.»
«Dove sono i soldi, dottor Seidman?»
«Ma non capisce? Hanno appena scavalcato quel muretto.»
«Chi?»
Capii dove voleva arrivare. Due agenti mi puntavano contro la pistola, mentre Regan mi fissava a braccia conserte. Alle sue spalle apparve Tickner.
«Parliamone, le va?»
Non mi andava. Non avrebbero sparato e, anche se l’avessero fatto, non m’importava. Quindi mi rimisi a correre, con loro dietro. Gli agenti erano giovani e sicuramente più in forma di me, ma io avevo una carta dalla mia: ero impazzito. Saltai la staccionata e ricaddi sul pendio. Gli agenti mi vennero dietro, ma si muovevano con maggiore cautela, temendo di cadere.
«Fermo!» gridò di nuovo uno di loro.
Ansimavo troppo per poter dare altre spiegazioni. Volevo che continuassero a corrermi dietro, ma senza raggiungermi.
Mi raggomitolai su me stesso e presi a rotolare lungo il pendio. Dei frammenti di vetro mi si attaccarono agli abiti e mi s’infilarono tra i capelli, e si sollevò un polverone. Soffocai un colpo di tosse. Proprio mentre prendevo velocità andai a sbattere con il torace contro un tronco d’albero e udii il rimbombo dell’impatto, che mi tolse quasi il fiato. Ma non mi diedi per vinto. Scivolando di lato mi ritrovai sul sentiero, e dietro di me vidi le torce dei poliziotti: non mi avevano perso, quindi, ma erano a distanza di sicurezza. Bene.
Guardai veloce a destra e a sinistra. Nessuna traccia della camicia a scacchi o di Tara. Cercai ancora d’indovinare che direzione potessero aver preso, ma senza successo. Mi fermai e gli agenti si fecero più vicini.
«Fermo!»
Avevo il cinquanta per cento di possibilità.
Stavo per scattare verso sinistra e tornare a immergermi nell’oscurità quando vidi il giovane con il fazzoletto azzurro in testa, quello che poco prima mi aveva indicato con il capo la direzione. Questa volta scosse la testa e puntò il dito alle mie spalle. «Grazie» gli dissi.
Se disse qualcosa non lo udii perché mi ero già allontanato, diretto verso la rete metanica che poco prima avevo superato in senso contrario. Udii un rumore di passi, ma erano troppo distanti. Sollevai lo sguardo e vidi di nuovo la camicia a scacchi, accanto alle luci della scala della metro. L’uomo sembrava stesse riprendendo fiato.
Mi misi a correre più forte.
Lo stesso fece lui.
Ci separavano una cinquantina di metri, ma lui doveva portarsi dietro la bambina, quindi avrei potuto raggiungerlo. Il poliziotto di prima gridò: «Alt!», forse per il gusto di cambiare. Speravo proprio che non gli venisse in mente di sparare.
«È tornato sulla strada!» gridai. «Ha con sé mia figlia!»
Non sapevo se mi avevano sentito. Arrivato alle scale, scesi tre gradini alla volta. Ero uscito dal parco e mi trovavo di nuovo in Fort Washington Avenue, all’altezza della rotonda Margaret Corbin. Nel campo giochi non vidi nulla, allora guardai lungo la strada e vidi qualcuno che correva davanti al liceo Madre Cabrini, vicino alla chiesa.
La mente fa strane associazioni, a volte. La chiesa Cabrini è uno dei luoghi più surreali di New York. Zia mi ci aveva trascinato a messa, una volta, per mostrarmi perché quella chiesa era una specie di attrazione turistica. Non tardai ad accorgermene. Madre Cabrini è morta nel 1901 e le sue spoglie imbalsamate riposano all’interno di una specie di blocco di plexiglas. Che fa da altare, nel senso che il sacerdote vi celebra la messa. No, non me lo sto inventando. L’imbalsamatore che ha lavorato sul corpo di Madre Cabrini è lo stesso che ha poi imbalsamato Lenin a Mosca. La chiesa è aperta al pubblico e c’è anche un negozio di souvenir.
Non mi fermai, nonostante mi sentissi le gambe pesanti. Non udivo più i poliziotti. Mi guardai velocemente alle spalle, ma le torce elettriche erano lontane.
«Qui! Vicino al liceo Cabrini!» gridai.
Scattai nuovamente e raggiunsi il portone della chiesa, ma era chiuso a chiave. Dell’uomo con la camicia a scacchi nemmeno l’ombra. Con gli occhi spalancati per il panico, guardai dappertutto, ma invano. Li avevo persi.
«Da questa parte!» gridai ancora, nella speranza di essere sentito dalla polizia o da Rachel, oppure da entrambi.
Ma la disperazione mi travolse. Mi ero lasciato sfuggire un’altra occasione, la mia bambina era nuovamente scomparsa e quel pensiero mi opprimeva come un peso che mi schiacciasse il petto. In quel momento sentii il rombo di un’auto che veniva messa in moto.
Voltai di scatto la testa a destra, e mi rimisi a correre. Un’auto si stava muovendo, a una diecina di metri da me, una Honda Accord. Mi fissai nella mente la targa, pur sapendo che sarebbe stato inutile. L’uomo alla guida stava ancora facendo manovra per uscire dal parcheggio e non riuscivo a vedere chi fosse. Ma non volevo lasciare nulla di intentato.
La Honda aveva appena girato attorno al paraurti dell’auto di fronte e stava per partire quando afferrai la maniglia dello sportello dalla parte del guidatore. Finalmente un po’ di fortuna, la sicura non era inserita. Non ne avevano avuto il tempo per la fretta, pensai.
Nel giro di pochi secondi successero diverse cose. Mentre stavo accanto allo sportello guardai attraverso il finestrino, ed ebbi la conferma che alla guida c’era l’uomo con la camicia a scacchi. Che reagì immediatamente, cercando di impedirmi di salire. Io tirai forte dall’altra parte, lo sportello si aprì di uno spiraglio e lui premette sull’acceleratore.
Tentai di correre di fianco all’auto, come fanno nei film. Il fatto, purtroppo, è che le auto sono più veloci degli uomini. Ma non mi arresi. Ogni tanto si sente di qualcuno che in certe circostanze diventa incredibilmente forte, di uomini normalissimi che riescono a sollevare un’auto per liberare la persona amata, rimasta sotto le ruote. Mi fanno sorridere queste storie, e forse fanno sorridere anche voi.
Io non sollevai l’auto, ma vi rimasi aggrappato serrando come una morsa le dita delle mani attorno al montante tra lo sportello anteriore e quello posteriore. Deciso a non staccarmene per nessuna ragione.
Se rimango attaccato mia figlia vive, se lascio la presa mia figlia muore.
Fregatene della concentrazione, della divisione in compartimenti. Quel pensiero, quell’equazione, era semplice come respirare.
L’uomo con la camicia a scacchi continuò a premere sull’acceleratore e l’auto stava prendendo velocità. Sollevai le gambe da terra, sempre correndo accanto all’auto, ma non c’era alcuna sporgenza sulla quale puntare i piedi, che scivolavano sullo sportello posteriore ricadendo al suolo. Sentii l’asfalto scorticarmi la pelle delle caviglie e tentai nuovamente di tenere i piedi sollevati, ma senza successo. Del dolore, anche se terribile, in quel momento non me ne importava niente.
Ma mi resi conto che quella situazione era insostenibile, che per quanto mi sforzassi di rimanere aggrappato non avrei potuto resistere ancora per molto. Dovevo fare qualcosa. Tentai di infilarmi dentro l’auto, ma non avevo abbastanza forza. Tenni le braccia tese e provai di nuovo a saltare: ora il mio corpo si trovava in posizione orizzontale, cioè parallela al suolo. La gamba destra trovò qualcosa e vi si aggrappò, era l’antenna sul cofano dell’auto. Avrebbe retto al mio peso? Temevo di no. Avevo il viso premuto contro il vetro dello sportello posteriore. Guardai sul sedile.
Era vuoto.
Ancora una volta fui preso dal panico, sentii che le mani stavano perdendo la presa. Avevamo percorso venti, forse trenta metri. Con il viso premuto contro il finestrino e il naso che sbatteva contro il vetro, il corpo e la faccia graffiati e contusi, guardai il piccolo seduto accanto al guidatore e un’atroce consapevolezza mi indusse a staccare le mani dal finestrino.
La mente, come dicevo, a volte funziona in modo strano. Il mio primo pensiero fu quello tipico del dottore: i bambini devono stare seduti dietro. La Honda Accord ha l’airbag anche per il passeggero, e i bambini sotto i dodici anni non dovrebbero sedere davanti. I bambini piccoli, poi, vanno tenuti negli appositi seggiolini. Questo prevede il codice. Se un bambino non è seduto sul seggiolino e sta sul sedile davanti è doppiamente pericoloso.