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Sollevai lo sguardo su Lenny, e vidi che era stupito quanto me. Tickner tirò fuori un’altra foto, poi un’altra ancora. Erano state scattate tutte di fronte all’ospedale e nell’ottava si vedeva Rachel entrare nell’edificio. Nella nona, fatta un’ora dopo, uscivo io, da solo. Nella decima, scattata sei minuti dopo la precedente, Rachel usciva dallo stesso ingresso.

Sulle prime il mio cervello non riuscì nemmeno ad afferrare le implicazioni di quelle immagini. Ero in preda a un profondo sconcerto e non ebbi il tempo di elaborare il significato di ciò che avevo appena visto. Anche Lenny sembrava sbalordito, ma si riprese prima di me.

«Andatevene» disse.

«Non vuole prima darci una spiegazione di queste foto, dottor Seidman?»

Cercai di ribattere, ma ero troppo confuso.

«Uscite» disse ancora Lenny, questa volta più deciso. «Uscite subito.»

30

Mi misi a sedere sul letto. «Lenny?»

Lui andò ad assicurarsi che la porta fosse chiusa. «Sì, sono convinti che sia stato tu ad assassinarla. Tu e Rachel, insieme, perché avevate una relazione. Lei ha ucciso il marito, e quelli magari pensano che tu sia in qualche modo coinvolto, e poi tu e lei avete ucciso Monica, avete fatto chissà che di Tara e poi avete architettato questo piano per mungere il padre di tua moglie.»

«Ma non ha senso.»

Lenny rimase zitto.

«Mi hanno sparato, ricordi?»

«Lo so.»

«Non penseranno mica che mi sia sparato da solo.»

«Non lo so, ma con quelli tu non puoi più parlare. Ora hanno le prove. Puoi negare quanto vuoi di aver avuto una relazione con Rachel, ma Monica lo sospettava, al punto da rivolgersi a un investigatore privato. E poi, Gesù, pensaci: l’investigatore scatta quelle foto e le consegna a Monica. Dopo di che tua moglie viene ammazzata, la tua bambina scompare e tuo suocero tira fuori due milioni di dollari. Passa un anno e mezzo. Il padre di Monica ci rimette altri due milioni e tu e Rachel mentite sui vostri rapporti.»

«Non stiamo mentendo.»

Lenny non mi guardò.

«Ma quello che ho detto prima, che sarebbe stato assurdo che io avessi architettato un piano del genere, non ti convince? Me li sarei potuti prendere quei soldi, non ti pare? Non avevo alcun bisogno di rivolgermi a quel tipo con la Honda e il bambino. E mia sorella? Credono che abbia ucciso anche lei?»

«Quelle foto» disse sottovoce Lenny.

«Non ne sapevo niente.»

Riusciva a malapena a guardarmi, ma si rivolse a me nel gergo che usavamo da ragazzi. «E bravo il mio sorcio.»

«No, ti assicuro, non ne sapevo proprio niente.»

«Davvero non l’avevi mai più rivista prima di quella volta al supermercato?»

«Certo che no, e lo sai. A te lo direi.»

Rimase troppo a lungo a riflettere sulle mie parole. «A Lenny l’Amico potresti averlo nascosto.»

«No. E in ogni caso non avrei assolutamente potuto nasconderlo a Lenny l’Avvocato.»

Abbassò la voce. «Ma dell’appuntamento per la consegna del riscatto non hai parlato né all’Amico né all’Avvocato.»

Ecco spiegato il suo atteggiamento. «Non volevamo che si sapesse in giro, Lenny.»

«Capisco.» Invece non capiva affatto, e aveva anche ragione. «Un’altra cosa. Come hai fatto a scoprire quel CD in cantina?»

«È passata a trovarmi Dina Levinsky.»

«Dina la matta?»

«Ha avuto una vita tormentata, Lenny, non puoi immaginare quanto.»

Lenny fece un gesto infastidito, quasi a voler respingere la mia solidarietà umana per la nostra ex compagna di scuola. «Non capisco. Che ci faceva a casa tua?» Gli raccontai la storia di Dina e lui cominciò a fare strane smorfie. Alla fine fui io a chiedergli che cosa avesse.

«Ti ha detto che ora se la passa meglio? Che si è sposata?»

«Sì.»

«Stronzate.»

«E tu come fai a saperlo?»

«Mi occupo degli affari legali di sua zia. Dina Levinsky entra ed esce dalle cliniche psichiatriche da quando ha diciotto anni, è stata anche in carcere per aggressione aggravata, qualche anno fa. Non si è mai sposata e dubito anche che abbia mai tenuto una mostra personale.»

Non sapevo che cosa pensare. Mi tornò in mente l’espressione angosciata sul volto di Dina, quel volto privo di ogni colore mentre mi chiedeva: “Tu lo sai chi ti ha sparato, vero, Marc?”.

Ma poi che avrà voluto dire?

«Dobbiamo pensarci su bene» disse Lenny, grattandosi il mento. «Ora controllerò presso alcune fonti e vediamo se riuscirò a saperne di più. Chiamami se c’è qualche novità, d’accordo?»

«D’accordo.»

«E promettimi che non dirai nemmeno una parola, perché ci sono ottime possibilità che ti arrestino.» Sollevò una mano per impedirmi di protestare. «Hanno materiale a sufficienza per l’arresto e forse anche per il rinvio a giudizio. È vero, manca ancora qualche tassello, ma pensa al caso Shakeclass="underline" avevano meno elementi a suo carico di quanti ne abbiano contro di te, eppure l’hanno condannato. Quindi, se dovessero tornare promettimi di non dirgli nemmeno una parola.»

Glielo promisi perché, anche questa volta, la polizia aveva imboccato la pista sbagliata. Collaborare con loro non mi avrebbe aiutato a ritrovare mia figlia, e per me non contava altro. Lenny uscì e io gli chiesi di spegnere la luce, ma la stanza non restò al buio: nelle stanze d’ospedale non c’è mai completamente buio.

Cercai di capire quello che stava succedendo. Tickner si era portato dietro quelle strane foto e avrei preferito che non lo avesse fatto. Avrei voluto rivederle perché, comunque la girassi, per me non avevano alcun significato. Erano autentiche? Truccare una foto non è difficile, specie nell’era del digitale. Poteva essere quella la spiegazione? Erano false? Tornai con il pensiero a Dina Levinsky: a che cosa si doveva veramente quella sua bizzarra visita? Perché mi aveva chiesto se amavo Monica? Perché secondo lei dovevo sapere chi mi aveva sparato? Mi stavo facendo quelle domande quando si aprì la porta.

«È questa la stanza dello stallone con il camice?»

Era Zia. «Ciao.»

Entrò e con un rapido gesto indicò il letto. «Sarebbe questa la tua scusa per non venire al lavoro?»

«Ero di turno io ieri notte, vero?»

«Già.»

«Mi dispiace.»

«Hanno buttato giù dal letto me, invece, interrompendo un sogno piuttosto erotico.» Zia indicò con il pollice la porta. «Quell’omone che ho visto in fondo al corridoio.»

«Quello con gli occhiali da sole sulla testa rasata?»

«Proprio lui. È uno sbirro?»

«FBI.»

«Perché non me lo presenti? Potrei sempre riprendere con lui quel sogno interrotto.»

«Cercherò di presentartelo prima che mi arresti.»

«Per me va bene anche dopo.»

Sorrisi e lei venne a sedersi sul bordo del letto. Le raccontai l’accaduto e Zia non mi propose una sua teoria, non mi fece domande. Si limitò ad ascoltare e gliene fui davvero grato.

Stavo per dirle che ormai ero un sospetto quando il mio cellulare prese a squillare. Ne fummo entrambi sorpresi, per forza d’abitudine, perché i cellulari in ospedale sono verboten. Lo afferrai in fretta e risposi.

«Marc?»

Era Rachel.

«Dove sei?»

«Seguo i soldi.»

«Che cosa?»

«Hanno fatto esattamente ciò che pensavo. Li hanno trasferiti in un’altra borsa, ma non si sono accorti della microspia dentro la mazzetta. Ora mi trovo su Harlem River Drive e loro dovrebbero essere un chilometro e mezzo più avanti.»

«Dobbiamo parlare» le dissi.

«Hai trovato Tara?»

«Era un bluff, ho visto il bambino che si erano portati dietro. Non era mia figlia.»