«Ma la prima volta che li hai localizzati erano sulla Centosessantottesima?»
«Sì. Poi si sono spostati velocemente verso il centro città.»
Ci pensai su. «La metropolitana» dissi poi. «Devono aver preso il treno della linea A alla fermata della Centosessantottesima.»
«È quello che ho pensato anch’io. Comunque, ho rubato il furgone e mi sono diretta in centro anch’io. Ero tra l’Ottantesima e la Settantesima quando all’improvviso hanno preso verso est, questa volta facendo una sosta ogni tanto.»
«Si fermavano ai semafori, evidentemente hanno proseguito in auto.»
«Esatto. Hanno percorso Franklin Delano Roosevelt Drive e poi Harlem River Drive. Ho tentato di attraversare la città, ma ci ho impiegato un sacco di tempo e la distanza è diventata otto-dieci chilometri. Il resto lo conosci.»
Fummo costretti a rallentare per via di alcuni lavori in corso, vicino all’intersezione con la Route 4, e la strada passò da tre corsie a una. La guardai e vidi di nuovo i lividi, l’occhio gonfio, le enormi impronte delle mani sulle guance. Anche lei mi guardò, ma non aprì bocca. Allungai una mano e le carezzai il volto con la maggiore delicatezza possibile. Lei chiuse gli occhi, evidentemente emozionata da quel gesto tenero, e tutt’e due capimmo che cosa ci stava succedendo, a dispetto delle circostanze. Dentro di me sentii agitarsi un’emozione antica, ormai sopita. Tenni gli occhi fissi su quel volto incantevole, perfetto. Le scostai i capelli dal viso. Una lacrima fece capolino dall’occhio scendendo poi lungo la guancia. Lei mi mise una mano sul polso, trasmettendomi un calore che mi si diffuse per tutto il corpo.
Una parte di me, e so bene che effetto faranno queste parole, voleva dimenticare questa storia. Il sequestro era stato un imbroglio. Mia figlia era scomparsa. Mia moglie era morta. Qualcuno stava tentando di uccidermi. Era il momento di ricominciare, di concedersi un’altra occasione, un nuovo modo di vivere, di fare la cosa giusta, questa volta. Avrei voluto girare l’auto e imboccare la direzione contraria. Volevo guidare, guidare e basta, senza chiederle del marito ucciso e di quelle foto nel CD. Potevo dimenticare tutto, sapevo di poterlo fare. La mia vita era fatta di interventi chirurgici che modificavano la superficie, che aiutavano i pazienti a ricominciare lasciandosi alle spalle il passato, a migliorare ciò che era visibile e in tal modo anche ciò che non lo era. Una cosa del genere poteva succedere anche nel mio caso. Un semplice lifting facciale, avrei praticato la prima incisione al giorno precedente quella maledetta festa al college, per poi tirare il lembo su quattordici anni e suturarlo all’oggi. Un unico punto di sutura per quei due momenti. Un intervento di chirurgia plastica per far sparire quei quattordici anni, come se non fossero mai trascorsi.
Rachel aprì gli occhi e mi resi conto che stava pensando più o meno quello che pensavo io, che sperava che tornassi indietro. Ma non era possibile, ovviamente. Ci scambiammo una rapida occhiata, i lavori in corso erano ormai alle nostre spalle, lei mi tolse la mano dal polso. Le diedi un altro rapido sguardo. No, non avevamo più vent’anni, ma non aveva importanza. Ora lo capivo. L’amavo ancora. Per quanto ciò potesse essere irrazionale, sbagliato, stupido, ingenuo e tutto quello che volete l’amavo ancora. In quegli anni forse mi ero convinto del contrario, ma non avevo mai smesso di amarla. Era così terribilmente bella, così maledettamente perfetta: e i miei dubbi idioti svanirono al pensiero di quanto lei fosse stata vicina alla morte, al pensiero di quelle mani gigantesche che le toglievano il respiro. Non sarebbero scomparsi, quei dubbi, fino a quando non avessi scoperto la verità: ma non mi avrebbero scoraggiato, di qualunque verità si trattasse.
«Rachel?»
Ma lei si raddrizzò all’improvviso sul sedile, sempre con gli occhi fissi sul palmare.
«Che c’è?» le chiesi.
«Si sono fermati. Li raggiungeremo fra tre chilometri.»
32
Steven Bacard rimise al suo posto il ricevitore del telefono.
Scivoli pian piano nel male, pensò. Superi per un solo momento quella linea di confine. Poi torni indietro, e la superi in senso contrario. Ti senti al sicuro. Hai cambiato le cose in meglio, o questo almeno è ciò che credi. Ma la linea è sempre lì. Intatta. Certo, ora c’è qualche sbavatura, ma la si vede ancora chiaramente. E la prossima volta che la superi forse la sbavatura sarà più estesa. Ma tu hai preso le coordinate e, qualsiasi cosa possa succedere a quella linea, ti ricorderai dove si trova.
Non è vero?
Sopra il fornitissimo bar dell’ufficio di Steven Bacard c’era uno specchio. L’architetto che glielo aveva arredato aveva insistito, convincendolo che ogni persona di prestigio deve avere un angolo nel quale brindare al proprio successo. Lui allora aveva ceduto, anche se non beveva. Si guardò in quello specchio, Steven Bacard, e non per la prima volta in vita sua pensò: “Mediocre”. Era sempre stato mediocre. Mediocri erano stati i suoi voti a scuola, i risultati dei suoi test di attitudine scolastica e di quelli per l’ammissione alla facoltà di Giurisprudenza, i voti degli esami universitari, quelli dell’esame di procuratore legale (l’aveva superato al terzo tentativo, questo esame). Se la vita fosse come una partita di calcio alla buona tra ragazzini dove i due capitani scelgono a turno i componenti della propria squadra, lui sarebbe venuto subito dopo quelli bravi e appena prima delle schiappe: nella cuspide, cioè, di quelli che non lasciano alcun segno.
Bacard aveva optato per la professione legale ritenendo che il titolo di dottore in Giurisprudenza gli avrebbe conferito un certo prestigio. Ma così non era stato. Non riusciva a trovare clienti. Aveva aperto uno squallido studio vicino al tribunale di Paterson e lo divideva con un garante di cauzioni per la libertà provvisoria. Era uno di quegli avvocati che si piazzano nei pronto soccorsi alla ricerca di clienti, ma anche in quel branco di mezze figure professionali non era riuscito a distinguersi. Aveva sposato una donna appena più in alto del suo status, e lei non perdeva occasione per ricordarglielo.
Dove invece Bacard si collocava al di sotto della media, ma molto al di sotto, era nel numero degli spermatozoi. Per quanto ci provasse, e alla moglie Dawn non facevano molto piacere questi suoi tentativi, non riusciva a ingravidarla. Dopo quattro anni ricorsero all’adozione, ma anche in quel campo Steven Bacard si dimostrò di una mediocrità abissale, e per lui si rivelò pressoché impossibile adottare una bambina bianca come sua moglie desiderava ardentemente. Lui e Dawn andarono in Romania, ma i soli bambini disponibili per l’adozione erano o troppo grandi o neonati già rovinati dalla droga trasmessa loro dalla madre durante la gravidanza.
Ma fu proprio in quel posto dimenticato da Dio che Steven Bacard ebbe un’idea che, dopo trentotto anni di mediocrità, lo issò idealmente su un piedistallo rispetto alla massa.
«Problemi, Steven?»
La voce lo fece trasalire. Si voltò dando le spalle alla sua immagine allo specchio: Lydia lo fissava nell’ombra.
«Guardarsi in quel modo allo specchio, dai» disse lei. «Narciso si è rovinato proprio così.»
Bacard cominciò a tremare, non poteva farci niente. Non soltanto per Lydia, anche se lei gli faceva spesso quell’effetto. La telefonata lo aveva agitato, e la ciliegina sulla torta era stata proprio Lydia, che era comparsa a sorpresa nel suo ufficio. Lui non aveva idea di come fosse entrata o di quanto tempo fosse rimasta a guardarlo. Voleva chiederle che cos’era successo quella sera, voleva conoscere i particolari. Ma non c’era tempo.
«In effetti abbiamo un problema» le disse.
«Raccontami.»
Gli occhi di lei lo gelarono. Erano grandi, luminosi e belli; pure, dietro quegli occhi si avvertiva il vuoto, un freddo abisso, erano come finestre di una casa da tempo abbandonata.