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Ma Lydia non aveva alcun interesse a indagare nella sua psiche né ad ammorbidirla. In auto aveva contato i soldi. Era stato lui a cercarla e la parte di lei era di un milione di dollari, mentre l’altro milione l’intascava Bacard. Si mise in spalla la sacca di tela con i soldi suoi e di Heshy, poi scese dall’auto. Steven Bacard continuò a guardare fisso davanti a sé, ma non rifiutò il denaro, non la richiamò per dirle che di quella faccenda se ne lavava le mani. C’era un milione di dollari posato sul sedile accanto al suo e Bacard lo voleva. La sua famiglia adesso possedeva una grande villa ad Alpine, i suoi figli frequentavano una scuola privata. Quindi lui non si tirò indietro, ma tenne gli occhi fissi sul parabrezza e ingranò la marcia.

Quando si fu allontanato, Lydia chiamò Pavel, che se ne stava nascosto dietro i cespugli, in fondo all’isolato. Pavel portava ancora la camicia a scacchi e camminava con passo stanco. Aveva i denti rovinati dalle troppe sigarette e dalla scarsa igiene, il naso schiacciato per le continue risse. Era insomma un essere della peggior specie, uno che nella vita ne aveva viste tante. Ma non gli importava.

«Tu» le disse, riempiendo di disprezzo quelle due lettere. «Tu no detto me.»

Aveva ragione, lei no detto lui. In altre parole, lui non sapeva nulla. Uno che si esprimeva in maniera così rudimentale era l’uomo perfetto per il loro piano. Pavel era arrivato due anni prima dal Kosovo, portandosi dietro una donna incinta. In occasione della prima consegna del riscatto aveva ricevuto istruzioni precise, gli era stato detto di attendere che una certa auto si fermasse al parcheggio, di avvicinarsi al guidatore senza dire una parola, di farsi dare una borsa e risalire poi sul furgone. E, per complicare ulteriormente la faccenda, gli avevano detto di fingere di parlare a un cellulare.

Tutto qui.

Pavel non aveva idea di chi fosse Marc Seidman. Non sapeva che cosa contenesse la borsa, era all’oscuro del sequestro, del riscatto, di tutto insomma. Non si era messo i guanti, dal momento che le sue impronte digitali non comparivano negli archivi criminali americani, e non aveva documenti d’identità.

Alla fine gli avevano dato duemila dollari e l’avevano rispedito in Kosovo. Sulla scorta della generica descrizione fornita da Seidman, la polizia aveva tracciato e messo in circolazione l’identikit di un uomo impossibile a tutti gli effetti da individuare. Quando la banda aveva poi deciso di chiedere nuovamente il riscatto, era stato automatico rivolgersi ancora a Pavel. Si sarebbe vestito come la prima volta, avrebbe avuto lo stesso aspetto e questa volta, se Seidman avesse reagito, gli avrebbe riempito la faccia di pugni.

Era un tipo pratico, Pavel, e si sarebbe adeguato. In Kosovo vendeva le ragazze; la tratta delle bianche sotto la copertura dei locali di spogliarello era particolarmente redditizia, anche se Bacard aveva escogitato un altro sistema per sfruttare le donne. E Pavel, abituato ai cambiamenti improvvisi, avrebbe fatto ciò che andava fatto. All’inizio aveva manifestato un’aperta ostilità, ma gli era passata non appena Lydia gli aveva messo in mano un pacco di banconote per un totale di cinquemila dollari. Lydia gli diede poi una pistola, lui sapeva usarla.

Pavel si era appostato accanto al vialetto, tenendo accesa la ricetrasmittente. Lydia chiamò Heshy, per dirgli che erano pronti. Quindici minuti dopo passò davanti a loro l’auto di Heshy, che lanciò dal finestrino la microspia. Lydia l’afferrò al volo e gli lanciò un bacio, poi s’infilò in tasca la microspia, si portò sul retro dell’edificio, estrasse la pistola e attese.

L’aria della notte si stava trasformando in rugiada e Lydia cominciava ad avvertire nelle vene quel particolare formicolio indotto dall’emozione. Sapeva che Heshy non era distante, lui avrebbe voluto esserle al fianco, ma quella partita lei voleva giocarsela da sola. La strada era immersa nel silenzio, erano le quattro del mattino.

Cinque minuti dopo Lydia udì avvicinarsi l’auto.

33

Qualcosa non andava, proprio non andava.

Le strade si facevano via via più familiari e non le notavo quasi. Ero nervosissimo, eccitato, il dolore alle costole sembrava scomparso. Rachel era assorbita dal suo palmare, continuava ad armeggiare con lo stilo, piegava la testa da una parte per leggere meglio. Allungò una mano sul sedile posteriore e prese l’atlante mondiale di Zia. Poi, tenendo fra i denti lo stilo, cominciò a tracciare il nostro itinerario cercando forse di capirci qualcosa. Magari però, stava solo prendendo tempo, per evitare che le facessi un’inevitabile domanda.

La chiamai, piano. Lei mi guardò battendo le ciglia, poi riportò lo sguardo sulla carta stradale.

«Sapevi del CD-ROM prima di venire qui?» le chiesi.

«No.»

«Conteneva delle foto di te davanti all’ospedale dove lavoro.»

«Me l’hai detto.»

Puntò nuovamente lo stilo sul palmare.

«Sono vere quelle foto?»

«Vere?»

«Voglio dire, sono state alterate al computer, roba del genere… oppure eri proprio tu davanti a quell’ospedale due anni fa?»

Rachel rimase a capo chino ma con la coda dell’occhio notai che teneva le spalle curve. «Gira a destra» mi disse. «Lassù.»

Eravamo in Glen Avenue e la faccenda mi intrigava sempre più perché più in su, a sinistra, c’era il mio vecchio liceo. L’avevano ristrutturato quattro anni prima, aggiungendovi una piscina e una seconda palestra. La facciata era stata volutamente invecchiata, anche con l’aggiunta di rampicanti, conferendo all’edificio un aspetto austero, quasi a voler ricordare ai ragazzi di Kasselton ciò che i genitori si attendevano da loro.

«Rachel?»

«Quelle foto sono autentiche, Marc.»

La cosa non mi stupì, non so perché, forse cercavo di prendere tempo con me stesso. Mi stavo avventurando in acque pericolosissime, sapevo che le risposte avrebbero modificato nuovamente la situazione, avrebbero mandato tutto a gambe all’aria proprio quando speravo di rimettermi in carreggiata. «Credo di avere diritto a una spiegazione» dissi.

«Certo.» Chinò il capo sullo schermo del palmare. «Ma non adesso.»

«Proprio adesso, invece.»

«Dobbiamo concentrarci su ciò che ci aspetta.»

«Non mi sfottere, ti prego. Sto solo guidando e riesco a fare due cose contemporaneamente.»

«Io forse no» disse lei sottovoce.

«Che ci facevi davanti a quell’ospedale, Rachel?»

«Rallenta!»

«Perché?»

Eravamo in vista dei semafori di Kasselton Avenue, che a quell’ora di notte lampeggiavano. Mi voltai perplesso verso di lei. «Da che parte vado?»

«A destra.»

Mi si gelò il sangue nelle vene. «Non capisco.»

«L’auto si è fermata di nuovo.»

«Dove?»

Rachel finalmente sollevò gli occhi e incrociò il mio sguardo. «A meno che non stia leggendo male il segnale, sono a casa tua.»

Svoltai a destra, non avevo più bisogno delle indicazioni di Rachel, che teneva gli occhi fissi sul palmare. Eravamo a poco più di un chilometro di distanza, ormai. I miei genitori avevano percorso questa strada per andare in ospedale, il giorno in cui ero nato, e mi chiesi quante volte da quel giorno l’avessi percorsa io. Strano pensiero, ma la mente sa dove deve andare.

Girai a destra sulla Monroe, la casa dei miei era sulla sinistra. Le luci erano spente, tranne ovviamente quella del piano inferiore, regolata da un timer che l’accendeva alle sette del pomeriggio e la spegneva alle cinque del mattino. La lampadina era una di quelle a lunga durata e risparmio d’energia, che somigliano a uno sbaffo di gelato. Mamma si vantava della loro durata. Aveva letto da qualche parte che un altro efficace sistema per tenere i ladri alla larga era quello di lasciare la radio accesa, e il suo vecchio apparecchio era costantemente sintonizzato su una di quelle stazioni che trasmettono chiacchiere in continuazione. Ma purtroppo la radio di notte la teneva sveglia, e ora lei la regolava a un volume così basso che un ladro avrebbe dovuto premere l’orecchio contro l’apparecchio per convincersi a stare alla larga da casa nostra.