Stavo per svoltare in Darby Terrace quando Rachel mi disse di rallentare.
«Si stanno muovendo?» le chiesi.
«No, il segnale continua a venire da casa tua.»
Guardai in fondo all’isolato e cominciai a riflettere. «Per arrivare qui hanno seguito un percorso complicato» dissi poi.
«Lo so.»
«Forse hanno trovato la tua microspia.»
«È proprio quello che stavo pensando.»
L’auto si mosse lentamente. Eravamo davanti alla casa dei Citron, due prima della mia. Non si vedeva alcuna luce. Rachel si mordicchiò il labbro inferiore. Ora ci trovavamo davanti alla casa dei Kadison, appena prima della mia. Era tutto “troppo tranquillo”, come si suol dire, come se il mondo si fosse congelato, come se tutto ciò che si vede, perfino le cose animate, si stesse sforzando di rimanere in silenzio e immobile.
«Deve essere una trappola» disse.
Stavo per chiederle che cosa fare, se cioè fare marcia indietro oppure scendere e andare a piedi o ancora chiamare la polizia, quando la prima pallottola mandò in frantumi il parabrezza e mi sentii il viso frustato dai frammenti di vetro. Udii un breve grido. Senza riflettere razionalmente chinai il capo e alzai un braccio. Poi abbassai lo sguardo e vidi del sangue.
«Rachel!»
La seconda pallottola mi sibilò così vicina alla testa da sfiorarmi i capelli e si conficcò nel sedile con un rumore sordo. L’istinto prese di nuovo il sopravvento, ma questa volta avevo una missione, una vaga indicazione. Premetti sull’acceleratore e l’auto sembrò tuffarsi in avanti.
Il cervello umano è uno strumento stupefacente che nessun computer può eguagliare, è in grado in qualche centesimo di secondo di elaborare milioni di stimoli. Ed era probabilmente ciò che in quel momento stava facendo il mio. Ero chino al posto di guida e qualcuno mi stava sparando. D’istinto il mio cervello avrebbe voluto darsi alla fuga, ma qualcosa lungo il percorso evolutivo realizzò che forse forse ci sarebbe potuta essere una mossa migliore.
Il processo mentale si svolse, secondo una mia stima approssimativa, in meno di un decimo di secondo. Avevo il piede sull’acceleratore, le gomme fischiavano. Pensai a casa mia, al suo aspetto familiare, al punto da cui provenivano le pallottole. Sì, lo so che cosa state pensando. Forse il panico accelera le funzioni cerebrali, non so, ma realizzai che se a sparare fossi stato io e avessi atteso l’arrivo dell’auto, mi sarei nascosto dietro i cespugli che dividono il nostro giardino da quello dei nostri vicini, i Christie. Questi cespugli sono grossi e rigogliosi. Se avessi imboccato il vialetto, l’omicida avrebbe potuto farci fuori colpendo dalla parte del passeggero. Ma, dopo la mia esitazione, temette che facessi marcia indietro; era ancora in una buona posizione, anche se non proprio ideale, per spararci di fronte.
Quindi sterzai e puntai decisamente contro i cespugli.
Fu esploso un terzo colpo che, a giudicare dal suono, doveva avere colpito qualcosa di metallico come il radiatore. Lanciai una rapidissima occhiata a Rachel, una specie di istantanea visiva: si stava premendo una mano contro un lato del capo, che teneva basso, e tra le dita le colava del sangue. Mi sentii mancare, ma tenni l’acceleratore premuto muovendo la testa avanti e indietro, come se avessi potuto in tal modo disturbare la mira di chi stava sparando.
I fari dell’auto illuminarono i cespugli.
Vidi una camicia a scacchi.
Mi successe qualcosa. Come ho già detto, l’equilibrio mentale è una cordicella sottile e la mia si era già spezzata ma, in quel frangente, ero rimasto calmo. Questa volta invece mi sentii esplodere dentro come un ruggito di rabbia e paura. Premetti ancora di più sul pedale, quasi volessi conficcarlo nel pianale, e udii un grido di sorpresa. L’uomo con la camicia di flanella a scacchi tentò di saltare di lato.
Ma ero pronto.
Girai il volante verso di lui, come se ci trovassimo su un autoscontro. Vi fu uno schianto, ma il rumore risultò quasi attutito, e udii un grido. Il cespuglio s’impigliò nel paraurti. Cercai l’uomo con la camicia a scacchi.
Nulla. Avevo già la mano sulla maniglia, per aprire e corrergli dietro, ma Rachel mi bloccò. «No!»
Era viva!
Allungò una mano per inserire la marcia indietro. «Vai indietro!»
L’ascoltai. Non so prima a che cosa stessi pensando, quello era armato e io no. Nonostante l’impatto non avrei saputo dire se era morto, ferito o che cosa.
Feci marcia indietro. Notai che la via buia dove abitavo si era nel frattempo illuminata, spari e stridio di gomme non sono rumori abituali a Darby Terrace. La gente si era svegliata, aveva acceso la luce; in quel momento stavano sicuramente chiamando la polizia.
Rachel si raddrizzò sul sedile e io mi sentii immensamente sollevato. Aveva in mano una pistola e l’altra la teneva ancora premuta sulla ferita. «È l’orecchio» mi disse, e ancora una volta, per deformazione professionale, mi misi a pensare a come riparare il danno.
«Eccolo!» gridò.
Mi voltai di scatto. L’uomo dalla camicia a scacchi si trascinava lungo il vialetto, io girai la macchina per illuminarlo con i fari, ma quello scomparve dietro l’angolo. Guardai Rachel.
«Torna indietro, non sono sicura che sia solo.»
Eseguii. «E adesso?»
Lei si tolse la mano dalla ferita per portarla sulla maniglia dello sportello. «Rimani qui.»
«Sei matta?»
«Tieni il motore acceso e muoviti ogni tanto, facciamogli credere che siamo ancora in macchina. Io cerco di sorprenderli.»
E prima che potessi protestare era già scivolata fuori, con il sangue che le colava sul viso. Seguendo le sue istruzioni tenni il motore acceso e, sentendomi un perfetto idiota, avanzai con l’auto di un paio di metri per poi fare retromarcia.
Pochi secondi dopo Rachel scomparve alla mia vista.
Ancora qualche secondo e udii altri due spari.
Dal suo punto d’osservazione dietro la casa Lydia aveva seguito l’intera scena.
Pavel aveva sparato troppo presto, commettendo un errore. Nascosta dietro una catasta di legna, lei non era riuscita a vedere chi c’era nell’auto, ma quanto era successo l’aveva stupita: l’autista non solo aveva individuato Pavel, ma l’aveva anche ferito.
Pavel entrò nel suo campo visivo zoppicando, gli occhi di lei si erano così adattati all’oscurità che riusciva perfino a vedere il sangue che gli rigava il viso. Lydia sollevò un braccio, facendogli segno di avvicinarsi, lui cadde e cominciò a trascinarsi al suolo. La donna non perse d’occhio il retro della casa, ma l’auto sarebbe arrivata dalla strada di fronte. Dietro aveva una staccionata, in caso di fuga sarebbe passata dal cancelletto della villa alle sue spalle.
Pavel continuava a trascinarsi a terra e lei gli fece segno di sbrigarsi, continuando a tenere d’occhio la strada e chiedendosi che cosa avrebbe fatto quella ex federale. I vicini ormai si erano svegliati, cominciavano ad accendersi le luci, stava per arrivare la polizia.
Doveva sbrigarsi.
Pavel raggiunse la catasta di legna e rotolò accanto a lei, rimanendo per un momento sdraiato di schiena e respirando a fatica. Poi si mise in ginocchio accanto a Lydia, con gli occhi fissi nel buio. «Gamba rotta» disse con una smorfia di dolore.