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«Ci penseremo dopo. Dov’è la tua pistola?»

«Sbarazzato.»

Impossibile risalire a loro dalla pistola, pensò lei, quindi nessun problema. «Ho un’altra arma da darti, tu continua a tenere d’occhio la strada» gli disse.

Lui annuì e con gli occhi cercò di penetrare l’oscurità.

«Allora?» disse Lydia, avvicinandosi.

«Non sicuro.»

Mentre Pavel continuava a tenere d’occhio la strada, lei gli poggiò la canna della pistola contro la parte morbida dietro l’orecchio sinistro e premette il grilletto, ficcandogli due proiettili nel cervello. L’uomo crollò al suolo come una marionetta alla quale abbiano tagliato i fili.

Poi rimase a osservarlo. Meglio così tutto sommato, pensò, il piano B era probabilmente migliore del piano A. Se Pavel avesse ucciso quella dorma, una ex agente federale, la polizia avrebbe intensificato le ricerche dell’uomo dalla camicia a scacchi e l’indagine sarebbe andata avanti per mesi. Così invece, con Pavel ucciso dalla stessa pistola usata un anno e mezzo prima nella sparatoria in casa Seidman, la polizia avrebbe concluso che dietro tutta la faccenda c’era proprio Seidman o quella Rachel o entrambi e li avrebbe arrestati. Le accuse non avrebbero retto a lungo, ma in ogni caso gli investigatori avrebbero smesso di cercare altri responsabili. E loro avrebbero potuto scomparire con i soldi.

Il caso era chiuso.

Lydia udì all’improvviso uno stridio di pneumatici e gettò la pistola nel giardino del vicino, evitando di lasciarla in vista sul posto, sarebbe sembrato troppo ovvio. Poi frugò in fretta nelle tasche di Pavel. C’era naturalmente il rotolo di banconote che lei gli aveva appena dato, e non lo prese: sarebbe stato un altro elemento che avrebbe avvalorato la messinscena.

Non aveva altro in tasca: non aveva portafogli, documenti d’identità, foglietti o altri elementi dai quali risalire a lei. Pavel aveva eseguito gli ordini. Altre finestre cominciavano a illuminarsi, le restava poco tempo. Si alzò in piedi.

«Polizia federale! Getta a terra la pistola!»

Maledizione! Una voce di donna. Lydia sparò nella direzione dalla quale le era sembrato che giungesse la voce e si lanciò al riparo dietro la catasta di legna mentre la federale rispondeva al fuoco. Lei era bloccata. E ora? Allungò un braccio alle sue spalle e sollevò il gancio del cancelletto del vicino.

«Va bene, mi arrendo!» gridò.

Poi saltò in piedi, puntando nel buio la semiautomatica e premendo il grilletto il più velocemente possibile. Le risuonò nelle orecchie il fischio dei proiettili, ma lei non capì se la donna stava rispondendo al fuoco. Probabilmente no. Ma non c’era tempo da perdere, il cancelletto era aperto e lei l’imboccò di corsa.

Corse per un centinaio di metri, Heshy l’attendeva nel giardino di una villetta e insieme, stando a capo chino, seguirono una specie di sentiero fiancheggiato da cespugli potati di recente. Era in gamba, Heshy: si preparava sempre al peggio. Aveva lasciato l’auto in un vicolo cieco due isolati più avanti.

«Stai bene?» le chiese, quando furono a distanza di sicurezza.

«Sì, orsacchiotto.» Lydia trasse un profondo respiro, chiuse gli occhi e si mise comoda sul sedile. «Proprio bene.»

Ma, arrivati all’autostrada, si chiese che fine avesse fatto il cellulare di Pavel.

La mia prima reazione era stata ovviamente di panico.

Aprii lo sportello per lanciarmi all’inseguimento, ma poi il cervello riprese il controllo delle operazioni e mi bloccò. Una cosa era il coraggio o anche la temerarietà, un’altra il suicidio. Non avevo una pistola, al contrario di Rachel e di chi le aveva sparato, e correre disarmato in suo soccorso sarebbe stato per lo meno inutile.

Ma non potevo restarmene lì a far niente.

Richiusi lo sportello e ancora una volta affondai il piede sul pedale dell’acceleratore. L’auto si tuffò in avanti. Sterzai nel giardinetto di casa mia, gli spari erano venuti dal retro e fu lì che puntai, facendo strage di cespugli e aiuole. Erano lì da talmente tanto tempo che mi fecero quasi pena.

I fari dell’auto danzavano nell’oscurità. Sterzai a destra, con l’intento di aggirare il grosso olmo ma dovetti rinunciare, era troppo vicino alla casa e l’auto non ce l’avrebbe fatta a passare. Ingranai la retromarcia e affondai nuovamente il piede sul pedale, con le ruote che facevano schizzare il terriccio umido del prato avendo difficoltà a fare presa. Invasi la proprietà dei Christie e investii il loro nuovo gazebo: Bill Christie si sarebbe incazzato a morte.

Ero sul retro, ora, e i fari illuminavano la staccionata dei Grossman. Sterzai a destra, vidi Rachel e inchiodai. Se ne stava accanto alla catasta di legna, che c’era già quando comprammo la casa, ma non l’avevamo mai usata e il legno ormai doveva essere marcio e pieno di tarli. I Grossman si erano lamentati, temendo che i tarli potessero attaccare anche la loro staccionata, e io avevo promesso che avrei fatto pulizia, senza però mantenere la promessa.

Rachel teneva la pistola puntata verso terra, l’uomo con la camicia a scacchi giaceva ai suoi piedi simile a un sacco d’immondizia. Non ebbi bisogno di abbassare un finestrino, quando ci avevano sparato contro il parabrezza si era sbriciolato. Tutto taceva. Rachel sollevò una mano, facendomi segno che non c’era pericolo. Uscii velocemente dall’auto.

«Gli hai sparato tu?» le chiesi, e mi sembrò una domanda retorica.

Era morto, e non serviva una laurea in Medicina per rendersene conto. La parte posteriore del cranio non c’era più e sulla legna si vedevano frammenti di materia cerebrale, bianco-rosea e coagulata. Non sono un esperto di balistica, ma a giudicare dall’effetto devastante doveva essersi trattato di un proiettile di grosso calibro, oppure esploso a bruciapelo.

«C’era qualcuno con lui» disse Rachel. «Gli hanno sparato e poi sono scappati.»

Abbassai gli occhi sul morto, sentendomi nuovamente ribollire di rabbia. «Chi è?»

«Gli ho frugato nelle tasche, c’è un rotolo di banconote ma niente documenti.»

Avrei voluto prenderlo a calci, scuoterlo per chiedergli che cosa avesse fatto a mia figlia. Lo guardai in viso, rovinato ma bello, chiedendomi che cosa avesse portato quell’uomo in quel posto, perché le nostre vite si fossero incrociate. E fu allora che notai qualcosa di strano.

Piegai il capo di lato.

«Che c’è, Marc?»

Mi accovacciai a guardare da vicino. Non mi facevano certo impressione la materia cerebrale, le schegge d’osso o i tessuti rossi di sangue, avevo visto traumi peggiori. Esaminai il naso dello sconosciuto ridotto in pratica a un ammasso di stucco: l’avevo già notato la volta precedente. Un pugile, pensai, o uno che aveva avuto un’esistenza particolarmente dura. Aveva il capo piegato in un’angolatura insolita, la bocca era spalancata. Era stata proprio quest’ultima ad attirare la mia attenzione.

Infilai le dita tra mascella e palato e cercai di aprirla ancora di più.

«Che diavolo stai facendo?» mi chiese Rachel.

«Hai una torcia elettrica?»

«No.»

Ma non aveva importanza. Gli sollevai il capo, girai la bocca verso l’auto e alla luce dei fari riuscii a vedere chiaramente.

«Marc?»

«Mi ero chiesto come mai si fosse presentato a viso scoperto.» Chinai il capo verso la sua bocca, cercando di non farmi ombra. «Avevano preso mille precauzioni per non farsi identificare, alterando la voce al telefono, applicando alla fiancata del camioncino un’insegna rubata, fondendo insieme due mezze targhe. E questo invece si lasciava vedere in faccia.»

«Di che stai parlando?»

«La prima volta che l’ho visto ho pensato che si fosse camuffato, e la cosa avrebbe avuto una sua logica. Ma ora sappiamo che non era così: perché allora non si è coperto la faccia?»

Si sorprese nel vedermi prendere l’iniziativa, ma lo stupore durò poco e Rachel cercò di seguire il mio ragionamento. «Perché non aveva precedenti penali.»