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Rachel si fermò, le strisciai accanto. «Tutto bene?» mi sussurrò.

Annuii, ma mi mancava il fiato.

«Una volta lì dovremo fare qualcosa e tu devi essere in forze. Possiamo rallentare, se credi.»

Le feci segno di no e ci rimettemmo in movimento. Non avevo alcuna intenzione di rallentare, non era previsto. Ci stavamo avvicinando, ora riuscivo a vedere più distintamente la Camaro. Dietro le ruote posteriori si vedevano due alette antifango di gomma, ciascuna con la sagoma d’argento di una bella ragazza. Sulla coda dell’auto erano stati applicati degli adesivi, su uno dei quali si leggeva: NON SONO LE PISTOLE A UCCIDERE LA GENTE, MA CERTO RENDONO IL COMPITO PIÙ FACILE.

Eravamo arrivati al margine dell’erba e ci sentivamo esposti, quando un cane prese ad abbaiare. Ci bloccammo immediatamente.

Ci sono diversi tipi di latrati. Quello stizzoso di uno di quei seccanti cani da compagnia. Il verso amichevole di un golden retriever. L’avvertimento di un cucciolo fondamentalmente innocuo. E poi c’è quell’abbaiare gutturale del cane da cortile, quel latrato che sembra squassargli il torace e ti gela il sangue nelle vene.

In quest’ultima categoria rientrava il furioso abbaiare che stavamo udendo.

Non ho una particolare paura dei cani. Avevo una pistola e mi sarebbe riuscito più facile, pensavo, usarla contro un cane che contro un essere umano. A spaventarmi era ovviamente il pensiero che tutto quell’abbaiare sarebbe stato udito dagli occupanti della casa. E quindi restammo in attesa. Dopo un paio di minuti il cane tacque e noi tenemmo gli occhi fissi sulla porta del villino. Non sapevo bene che cosa avremmo fatto se fosse uscito qualcuno, se ci avesse visto. Non potevamo sparare, non sapevamo ancora assolutamente nulla; il fatto che dalla casa di un certo Verne Dayton fosse stata fatta una telefonata al cellulare di un morto non aveva in sé un gran significato. Non sapevamo se mia figlia si trovasse lì o no.

In pratica, non sapevamo nulla.

C’erano dei coprimozzo, in cortile, e il sole nascente li faceva brillare. Vidi anche alcuni scatoloni verdi e qualcosa in loro attirò la mia attenzione. Dimenticando qualsiasi precauzione cominciai ad avvicinarmi.

«Aspetta» mi bisbigliò Rachel.

Non potevo aspettare, dovevo guardarli più da vicino quegli scatoloni. Qualcosa in loro… ma non potevo andarli a prendere. Strisciai fino al trattore e mi ci nascosi dietro, poi mi sporsi per guardarli di nuovo. E finalmente riuscii a vederli bene, in particolare la testa di bambino sorridente che sembrava fosse il loro marchio.

Pannolini.

Rachel mi era venuta accanto. Inghiottii a vuoto. Uno scatolone di pannolini, di quelli che compri in confezione risparmio. Se ne accorse anche Rachel e mi mise una mano sul braccio, invitandomi a restare calmo. Tornammo dove ci eravamo fermati, lei mi fece segno che ci saremmo dovuti spostare sotto una finestra di lato e io con il capo le detti una specie di “ricevuto”. Dallo stereo giungeva ora un lungo assolo di violino a tutto volume.

Eravamo appiattiti a terra quando sentii sulla nuca qualcosa di freddo. Volsi lo sguardo verso Rachel e anche lei aveva una canna di fucile puntata contro la base del cranio.

«Lasciate le pistole!» ordinò una voce.

Una voce maschile. Rachel teneva la mano destra, quella con la pistola, piegata davanti al viso: aprì le dita e lasciò cadere l’arma. Uno scarpone da lavoro fece un passo avanti e la allontanò con un calcio. Cercai di valutare le possibilità di cavarcela. Adesso potevo vedere che l’uomo era solo e aveva due fucili, avrei potuto tentare una mossa: io non me la sarei cavata, ma avrei dato a Rachel il tempo di reagire. Incrociai i suoi occhi e vi lessi il panico, sapeva a che cosa stavo pensando. Il fucile all’improvviso aumentò la pressione sulla nuca, schiacciandomi il viso nella polvere.

«Non ci provare, capo. Posso far saltare le cervella a tutt’e due senza problemi.»

Cercai disperatamente qualche altra soluzione, finendo ogni volta in un vicolo cieco. Allora lasciai cadere la pistola e vidi lo sconosciuto allontanare con un calcio le nostre speranze.

36

«Fermi dove siete!»

«Sono un’agente dell’FBI» disse Rachel.

«Chiudi il becco.»

Sempre tenendoci con il viso nella polvere ci fece mettere le mani sulla testa con le dita intrecciate. Poi mi puntò un ginocchio contro la spina dorsale e feci una smorfia di dolore, quindi, facendo leva sul mio corpo, mi tirò indietro le braccia staccandomele quasi dalle spalle. I polsi mi furono legati a regola d’arte con una striscia di nylon flessibile, me li sentivo come quei giocattoli legati in maniera ridicolmente complicata per non farli rubare.

«Unisci i piedi.»

Un’altra manetta di plastica mi legò le caviglie. L’uomo si puntellò sulla mia schiena per sollevarsi in piedi e si rivolse a Rachel. Stavo per dire qualcosa di stupidamente cavalleresco come “Non la toccare!”, ma sapevo che nella migliore delle ipotesi sarebbe stato inutile. E me ne restai immobile.

«Sono un’agente federale» disse Rachel.

«L’avevo sentito anche la prima volta.»

Le puntò un ginocchio contro la schiena per unirle le mani e lei fece a sua volta una smorfia di dolore.

«Ehi!» gridai.

Quello m’ignorò. Allora mi voltai a guardarlo bene per la prima volta, e fu come tuffarsi nel passato prossimo. La Camaro era sua, indubbiamente. Aveva i capelli simili a quelli dei giocatori di hockey degli anni Ottanta, sembravano freschi di permanente ed erano di uno strano colore biondo-arancione portati dietro le orecchie con un taglio che l’ultima volta che avevo visto era stato in un video di Night Ranger. I baffi erano di un biondo quasi bianco e assomigliavano a una macchia di latte. Sulla T-shirt si leggeva UNIVERSITY OF SMITH AND WESSON. I jeans erano di un blu innaturalmente carico e sembravano rigidi.

«Alzati, signorina, io e te andiamo a fare due passi» disse, dopo avere legato i polsi a Rachel.

Lei cercò di dare alla sua voce un tono autorevole. «Lei non mi sta a sentire» disse, mentre i capelli le ricadevano davanti agli occhi. «Sono Rachel Mills…»

«E io sono Verne Dayton. Allora?»

«Sono un’agente federale.»

«Sul tesserino, veramente, si legge “in pensione”.» Verne Dayton sorrise. Non era sdentato, ma non avrebbe nemmeno potuto posare per la pubblicità di un dentifricio. L’incisivo destro era completamente piegato all’interno come una porta scardinata. «Piuttosto giovane per essere già in pensione, non trovi?»

«Continuo a occuparmi dei casi più importanti. All’FBI sanno che sono venuta qui.»

«Davvero? Non mi dire. Magari c’è un mucchio di agenti che ti aspettano nelle vicinanze e se fra tre minuti non ti vedranno tornare faranno irruzione qui dentro. È così, vero, Rachel?»

Le aveva visto il bluff e lei adesso non sapeva come uscirne.

«Alzati» le disse ancora, e questa volta la tirò su per le braccia.

Rachel si sollevò a fatica.

«Dove la stai portando?» gli chiesi.

Non mi rispose. Si diressero verso il fienile. «Ehi!» gridai, in tono autorevole. «Ehi, tornate qui!» Ma quelli non si fermarono. Rachel cercava di opporsi, ma aveva le mani legate dietro la schiena e ogni volta che si muoveva troppo lui gliele sollevava costringendola a piegarsi. Alla fine lei smise di resistere.

Avevo i nervi tesi per la paura. Cercai freneticamente qualcosa, qualsiasi cosa, per liberarmi. Le pistole? No, Verne se le era già prese e, anche in caso contrario, che cosa avrei potuto fare? Sparare con i denti? Pensai di muovermi rotolando sulla schiena, ma non sapevo bene a che cosa mi sarebbe servito. E allora? Presi a strisciare come un verme verso il trattore, cercando una lama o qualcosa del genere da usare per tagliare il nylon che mi serrava polsi e caviglie.