Udii in lontananza scricchiolare la porta del fienile e girai di scatto il capo, in tempo per vederli entrare. La porta si chiuse alle loro spalle e lo scricchiolio svanì nel silenzio. Frattanto era cessata anche la musica, doveva essere un CD o una cassetta. Tutto taceva e non vedevo più Rachel.
Dovevo liberarmi le mani.
Avanzai strisciando al suolo con il sedere sollevato e, facendo forza con le gambe, raggiunsi il trattore. Allora cercai una lama o un bordo tagliente. Nulla. Girai lo sguardo verso il fienile.
«Rachel!»
L’eco della mia voce nel silenzio fu l’unica risposta. Il mio cuore cominciò a fare capriole.
Oh Dio! E ora?
Mi voltai sulla schiena mettendomi a sedere e poi, facendo forza con le gambe, mi appoggiai al trattore. Ora vedevo bene il fienile, ma non avevo risolto un bel niente. Continuavo a non udire alcun rumore, alcun movimento. Cercai disperatamente con gli occhi qualcosa che potesse ridarmi la libertà di movimento, ma invano.
Mi venne l’idea di cercare nella Camaro. Uno fissato per le armi come quel Verne Dayton probabilmente andava in giro con due o tre pistole e magari ne teneva una nell’auto. Ma, anche se fossi arrivato in tempo alla Camaro, come avrei aperto lo sportello? Come avrei cercato la pistola? E, anche ammettendo che l’avessi trovata, come avrei sparato?
No, dovevo come prima cosa liberarmi di quelle manette.
Cercai per terra… non so nemmeno io che cosa. Un sasso affilato, una bottiglia di birra rotta. Qualcosa, insomma. Mi chiesi quanto tempo fosse passato da quando erano scomparsi alla mia vista, che cosa quello là stesse facendo a Rachel. Temevo che il cuore mi si fermasse da un momento all’altro.
«Rachel!»
Nell’eco di quell’invocazione c’era tutta la mia disperazione. Ero terrorizzato. Ma nemmeno quella volta ebbi una risposta.
Che cosa stava succedendo là dentro?
Cercai nuovamente qualche bordo affilato nel trattore, qualcosa da usare per liberarmi le mani. C’era della ruggine, molta ruggine. Era il caso di provare? Se avessi strofinato quelle rudimentali manette contro un angolo arrugginito sarei riuscito a spezzarle? Ne dubitavo, ma non avevo alternativa.
Riuscii a mettermi in ginocchio, poi portai i polsi a contatto con l’angolo arrugginito e cominciai a muoverli su e giù, come un orso che si gratta la schiena contro un albero. Ma non controllai il movimento e mi tagliai; sentii il dolore propagarsi per tutto il braccio. Mi voltai a guardare la stalla e drizzai le orecchie, ma continuai a non udire nulla.
Allora ripresi a strofinare i polsi contro il trattore.
Ma procedevo a naso poiché, anche girando al massimo la testa, non riuscivo a vedere i polsi. Stavo ottenendo qualche risultato? Non lo sapevo. Ma non avevo altre speranze e quindi continuai a fare su e giù con le braccia, come un Ercole che tenta di spezzare le catene in un film mitologico di second’ordine.
Non so per quanto tempo andai avanti così, forse non più di due o tre minuti, anche se mi sembrò una vita. Il legaccio che mi serrava i polsi non si era spezzato né allentato. Ma a fermarmi fu un rumore, quello della porta del fienile che si apriva. Per un momento non vidi nulla, poi apparve sulla porta il bifolco capellone. Da solo. E venne verso di me.
«Dov’è Rachel?»
Verne Dayton senza dire una parola si chinò a controllare il legaccio di plastica. Avvertivo la sua puzza, sapeva di erba secca e sudore. Lui mi stava controllando le mani. Girando lo sguardo vidi a terra una macchia di sangue, era sicuramente il mio. E mi venne all’improvviso un’idea.
Spostai indietro il capo e gli assestai una testata sulla faccia.
So che effetti devastanti può avere un simile colpo, avevo operato dei volti presi a testate.
Ma questa volta le conseguenze furono meno gravi.
Perché ero in una posizione precaria, avevo mani e piedi legati e mi trovavo in ginocchio. Non riuscii a colpirgli il naso e nemmeno altre parti molli del viso, ma la fronte. Si udì un rumore sordo e Verne Dayton barcollò all’indietro imprecando. E io mi trovai completamente sbilanciato in caduta libera, potendo attutire l’impatto soltanto con la faccia. Atterrai sulla guancia destra e battei i denti, ma ormai non avvertivo più il dolore. Voltai gli occhi e lo vidi, se ne stava seduto cercando di schiarirsi le idee: sulla fronte aveva una ferita.
Ora o mai più.
Legato com’ero mi gettai contro di lui, ma non abbastanza velocemente.
Verne Dayton indietreggiò sollevando uno scarpone e, quando fui a distanza utile, me lo schiacciò sulla faccia come se stesse spegnendo i resti di un falò. Caddi all’indietro, lui indietreggiò a distanza di sicurezza e afferrò il fucile.
«Non ti muovere!» Si passò le dita sul taglio in fronte, poi guardò incredulo il sangue. «Ti sei ammattito?»
Ero caduto di schiena e ansavo come una vaporiera. Non mi sembrava di avere qualcosa di rotto ma, ancora una volta, non me ne importava più di tanto. Lui si avvicinò e mi tirò un calcio nelle costole facendomi rotolare sulla pancia. Poi mi afferrò per le braccia e prese a trascinarmi. Tentai di puntare i piedi, ma quello era forte come un bestione e non rallentò nemmeno per salire i gradini della villetta. Mi trascinò su, aprì la porta con una spallata e mi sbatté dentro come un sacco di patate. Poi entrò e chiuse la porta.
Mi guardai attorno e metà di quello che vidi me l’aspettavo, ma non certo il resto. Mi aspettavo di vedere i fucili appesi alla rastrelliera, i moschetti antichi, la doppietta da caccia. C’era anche l’immancabile testa di cervo, una targa incorniciata della National Rifle Association intestata a Verne Dayton e una bandiera americana trapunta. Non mi aspettavo invece di trovarmi in un posto così pulito e arredato con un certo gusto. In un angolo notai un box per bambini, ma i giocattoli non erano sparsi alla rinfusa bensì infilati in uno di quegli armadi in fibra di vetro con i cassetti di diversi colori. E ogni cassetto aveva la sua brava etichetta.
Si sedette e mi guardò, ero a terra bocconi. Lui, con le mani, si mise a posto i capelli, portandoli indietro e tirandoli sopra le orecchie. Aveva il volto affilato. Era proprio il perfetto contadinaccio.
«Sei stato tu a conciarla così?» mi chiese.
Per un attimo non capii di che cosa stesse parlando, poi mi resi conto che si riferiva alle ecchimosi di Rachel. «No.»
«Ti eccita pestare le donne, vero?»
«Tu che cosa le hai fatto?»
Estrasse un revolver, aprì il tamburo e vi infilò una pallottola. Poi lo richiuse, lo fece ruotare e mi puntò l’arma contro la gamba. «Chi ti ha mandato?»
«Nessuno.»
«Vuoi che ti faccia saltare il ginocchio?»
Ne avevo abbastanza. Rotolai sulla schiena, aspettando che premesse il grilletto. Ma lui non sparò e mi lasciò muovere, sempre tenendomi la rivoltella puntata contro. Mi sollevai a sedere, lo guardai fisso e la cosa sembrò sorprenderlo. Fece un passo indietro.
«Dov’è mia figlia?» gli chiesi.
«Che cosa?» Piegò il capo di lato. «Credi di essere divertente?»
Lo guardai negli occhi e capii. Non stava fingendo, non capiva proprio di che cosa stessi parlando.
«Arrivate qui armati» mi disse, arrossendo. «Volevate uccidere me? Mia moglie? I miei bambini?» Sollevò il fucile puntandomelo in faccia. «Spiegami perché non dovrei farvi fuori entrambi e seppellirvi tra gli alberi.»
Bambini. Aveva detto bambini. Qualcosa cominciava a chiarirsi in questo rompicapo. Decisi di azzardare una mossa. «Stammi a sentire» gli dissi. «Mi chiamo Marc Seidman, diciotto mesi fa hanno assassinato mia moglie e rapito mia figlia.»
«Ma di che vai cianciando?»
«Lasciami spiegare, per favore.»
«Aspetta un momento.» Verne si massaggiò il mento, pensieroso. «Mi ricordo di te, ti ho visto in televisione. Ti avevano anche sparato, giusto?»
«Sì.»