Si strinse nelle spalle. «O, almeno, credevo che fosse felice.»
Bevemmo in silenzio.
«Verne?» gli dissi.
«Sì?»
«Sei un uomo interessante.»
Rise, ma si vedeva che aveva paura e per nasconderla mandò giù un sorso di birra. Si era ritagliato la sua vita, una vita che gli piaceva. È strano, io non so giudicare le persone, la mia prima impressione di solito è sbagliata. Che giudizio avrei mai potuto dare di quel cafone contadino pazzo per le armi, con quei capelli, quegli adesivi sul retro dell’auto, quell’auto mostruosa? E invece, più lo stavo ad ascoltare più mi piaceva. Io dovevo essergli sembrato altrettanto alieno, dal momento che praticamente gli ero entrato in casa armato: ma ciò nonostante, appena avevo cominciato a raccontargli la mia storia, mi era stato ad ascoltare e aveva capito che gli stavo dicendo la verità.
Sentimmo arrivare un’auto e Verne andò alla finestra a guardare. Sul suo viso si dipinse un sorriso triste. C’era la sua famiglia, in quell’auto, la famiglia alla quale voleva tanto bene, che aveva appena protetto dall’invasione di due sconosciuti armati. E ora io, nel tentativo di ricomporre la mia famiglia, stavo probabilmente disgregando la sua.
«Guardate! Papà è in casa!»
Doveva essere Katarina. L’accento era inequivocabilmente straniero, del ceppo balcanico o dell’Europa orientale o russo, non sono un linguista e non saprei quindi dire con esattezza quale. Udii i gridolini felici dei bambini e il sorriso di Verne si fece meno triste. Uscì per andare loro incontro e io e Rachel rimanemmo dov’eravamo. Udivamo il suono veloce di passi sui gradini. I saluti durarono un paio di minuti, io mi guardai le mani mentre Verne diceva qualcosa a proposito di regali nel camioncino e i bambini scattavano per andarseli a prendere.
La porta si aprì e Verne entrò tenendo la moglie allacciata per la vita.
«Marc, Rachel, vi presento mia moglie Kat.»
Era bella. Aveva lunghi capelli lisci, pelle bianchissima, occhi azzurro ghiaccio e il prendisole le lasciava le spalle scoperte. In lei c’era un qualcosa che faceva capire, anche se non l’avessi saputo, che era straniera. O forse lo pensavo proprio perché lo sapevo. Tentai di darle un’età, a prima vista avrei detto sui venticinque anni, ma dalle rughe attorno agli occhi capii che doveva averne una decina di più.
«Salve» dissi.
Mi alzai insieme a Rachel per stringerle la mano, una mano delicata ma dalla stretta più che energica. Katarina mantenne quel suo sorriso da perfetta padrona di casa, ma le costò fatica. Non riusciva a staccare gli occhi da Rachel e dalle sue contusioni ed ecchimosi. Dovevano fare impressione, ma io ormai mi ci ero abituato.
Sempre sorridendo lei guardò il marito come per fargli una domanda. «Sto cercando di aiutarli» disse Verne.
«Aiutarli?» ripeté lei.
I bambini avevano trovato i regali e strillavano felici, ma sembrava che Verne e Katarina non li udissero nemmeno, si guardavano negli occhi e lui le teneva una mano. «A quest’uomo» e mi indicò con il mento «hanno assassinato la moglie e rapito la bambina.»
Lei si portò una mano alla bocca.
«Sono venuto qui per cercare la bambina.»
Katarina non si mosse e il marito fece segno a Rachel di andare avanti al posto suo.
«Ha fatto una telefonata questa notte, signora Dayton?» le chiese Rachel.
La donna sollevò di scatto la testa, allarmata. Guardò prima me come si guarda un fenomeno da baraccone, poi spostò la sua attenzione su Rachel. «Non capisco.»
«Ci risulta che a mezzanotte da questa casa è stata fatta una telefonata a un certo cellulare, e secondo noi a telefonare è stata lei.»
«No, non è possibile.» Gli occhi di Katarina si mossero veloci a destra e a sinistra, come se stesse cercando una via di fuga. Verne, che le teneva ancora la mano, cercò d’intercettare il suo sguardo, ma lei gli sfuggì. «Un momento» disse poi. «Forse ho capito.»
Rimanemmo in attesa.
«Questa notte, mentre dormivo, è squillato il telefono.» Tentò nuovamente di sorridere, ma con notevole difficoltà. «Non so che ora fosse, molto tardi comunque. Pensavo fossi tu, Verne.» Lo guardò e questa volta il sorriso resse e lui glielo restituì. «Ma quando ho risposto non ho sentito nessuno. Allora ho ricordato qualcosa che avevo visto alla televisione, che cioè per richiamare un numero che ci ha appena chiamato bisogna comporre asterisco, sei e nove, È quello che ho fatto, ha risposto un uomo ma non era Verne e allora ho attaccato.»
Ci guardò speranzosa. Io e Rachel ci scambiammo un’occhiata. Verne sorrideva ancora, ma teneva le spalle curve. Le lasciò la mano e crollò quasi sul divano.
Katarina si diresse verso la cucina. «Vuoi un’altra birra, Verne?»
«No, tesoro, voglio che ti sieda qui accanto a me.»
I bambini continuavano a gridare felici e, anche se so che è banale, non c’è nulla di più bello del riso spontaneo dei bambini. Katarina guardò il marito con un’intensità che mi costrinse quasi a distogliere lo sguardo.
«Lo sai, cara, quanto vogliamo bene ai nostri bambini, vero?»
Lei fece segno di sì con il capo.
«Prova a immaginare se qualcuno ce li portasse via, pensa se qualcosa del genere fosse successa più di un anno fa, pensaci. Immagina se per esempio qualcuno più di un anno fa si fosse portato via Perry e noi non sapessimo ancora dove si trova.» Mi indicò con il dito. «Quest’uomo non sa che fine ha fatto la sua bambina.»
Gli occhi di Katarina brillavano di lacrime.
«Dobbiamo aiutarlo, Kat. Devi dire tutto quello che sai, quello che hai fatto. A me non importa, se ci sono segreti devi dirli ora, metteremo una pietra sopra il passato. Posso perdonare quasi tutto, ma credo che non potrei mai perdonarti se non aiuterai quest’uomo e la sua bambina.»
Lei chinò il capo e rimase zitta.
Rachel tornò alla carica. «Se sta tentando di proteggere l’uomo al quale ha telefonato, non deve preoccuparsi. Qualcuno l’ha ucciso poche ore dopo la sua chiamata, signora.»
Katarina rimase a capo chino. Io mi alzai e presi a camminare su e giù. Da fuori giunse un altro scoppio di risa, mi avvicinai alla finestra. Verne Junior, capii che era lui perché dimostrava circa sei anni, gridò: «Pronto o non pronto, ora arrivo!». I due fratelli stavano giocando a nascondino e non era difficile capire dove si era nascosto Perry, la cui risata giungeva da dietro la Camaro. Verne Junior finse di guardare da un’altra parte, ma all’improvviso scattò verso l’automobile e urlò: «Tana!».
Perry, sempre ridendo, schizzò fuori e si mise a correre. E quando vidi il suo viso sentii il mio mondo, già traballante, accusare un altro duro colpo. Perché l’avevo riconosciuto, Perry.
Era il bambino.che avevo visto poche ore prima dentro l’auto.
37
Tickner parcheggiò davanti alla casa di Seidman. Non avevano ancora messo le strisce gialle di plastica per delimitare la scena del crimine, ma l’agente federale contò sei autopattuglie e due camioncini delle televisioni. Si chiese se fosse il caso di avvicinarsi, con le telecamere in funzione, dopo il discorso che gli aveva appena fatto Pistillo, il capo del capo. Ma alla fine decise che, anche se fosse stato ripreso in TV, avrebbe sempre potuto dire che era andato lì per informare la polizia locale di avere abbandonato le indagini per lasciarle a loro.
Trovò Regan sul retro, intento a osservare il cadavere. «Chi è?»
«Non ha documenti. Speriamo di identificarlo con le impronte digitali.»
Abbassarono entrambi lo sguardo.
«È simile all’identikit che avevamo fatto l’anno scorso in base alla descrizione di Seidman» osservò Tickner.
«È vero.»
«Che cosa significa, quindi?»
Regan si strinse nelle spalle.
«Che cos’hai saputo, finora?»
«I vicini hanno sentito degli spari e poi uno stridio di pneumatici, quindi hanno visto una BMW Mini che saliva sul giardinetto davanti a casa. Altri spari. Poi è comparso Seidman, secondo un vicino c’era una donna con lui.»