― Dai, Remo, ― dice la signora Lisa, ― parliamo sul serio.
― Va bene. Sul serio. Due tamburi: uno in do e uno in sol.
― So io, ― dice la signora Lisa, ― quello che ci vuole per Enrica. Una bella bambola elettronica a transistor, con la lavatrice incorporata: una di quelle bambole che camminano, parlano, cantano, controllano le conversazioni telefoniche, captano le trasmissioni in stereofonia e fanno pipì.
― D’accordo, ― proclama il signor Fulvio, nella sua qualità di capofamiglia.
― Io me ne infischio, ― questo è il signor Remo, ― e vado a letto a dormire tra due guanciali.
Ed ecco, dopo pochi giorni, il Santo Natale, con tanti bei prosciutti appesi fuori dei negozi e tanti magnifici portacenere a forma di Piccolo Scrivano Fiorentino nelle vetrine e tanti zampognari, veri e falsi, per le strade. Neve sull’arco alpino e nebbia in Val Padana.
La bambola nuova è già lì che aspetta Enrica sotto l’albero di Natale. Lo zio Remo (si tratta sempre dello stesso Remo, il quale per il signor Fulvio è un cognato, per la signora Lisa un fratello, per la portiera un ragioniere, per il giornalaio un cliente, per il vigile urbano un pedone e per Enrica, giustappunto, uno zio: quante mai cose può essere una sola persona!), dunque, lo zio Remo osserva la bambola con un sogghigno. Bisogna sapere che, di nascosto da tutti, egli compie severi studi di magia: può spaccare un portacenere di travertino con una semplice occhiata, tanto per fare un esempio. Egli tocca la bambola in due o tre punti, sposta qualche transistor, sogghigna di nuovo e infine se ne va al caffè, mentre arriva di corsa Enrica, lanciando grida di gioia, che i genitori ascoltano con delizia dietro la porta chiusa.
― Bella, bella, ― dichiara Enrica, al colmo dell’entusiasmo. ― Ti preparo subito la colazione.
Rovistando febbrilmente nell’angolo dei giocattoli, essa ne cava un ricco apparato di chicchere, piattini, bicchierini, vasetti, bottigliette, eccetera, che dispone sul tavolinetto delle bambole. Fa camminare la bambola nuova fino al suo posto, la fa chiamare mamma e papà due o tre volte, le allaccia il tovagliolo al collo e si prepara a imboccarla. Ma la bambola, appena lei si volta un momentino, spara un paio di calci che mandano all’aria tutto l’apparecchio. Piattini che vanno in pezzi. Chicchere che rotolano sul pavimento del condominio e vanno a sfracellarsi contro il termosifone. Cocci.
Naturalmente accorre la signora Lisa, pensando che Enrica si sia fatta male. Arriva, crede a quello che vede e senza perder tempo sgrida per bene la figlia, chiamandola “brutta cattiva” ed aggiungendo: ― Ecco, proprio il giorno di Natale mi devi combinare disastri. Guarda che se non stai attenta ti porto via la bambola e non la vedi più.
Poi va in bagno.
Enrica, rimasta sola, acchiappa la bambola, le da un paio di sculacciate, la chiama “brutta cattiva” e la rimprovera di combinare disastri proprio il giorno di Natale:
― Guarda che se non fai la brava, ti chiudo nell’armadio e non esci più.
― Perché? ― domanda la bambola.
― Perché hai rotto i piattini.
― Non mi piace giocare con quelle cretinate lì, ― dichiara la bambola. ― Fammi giocare con le automobiline.
― Te le do io le automobiline! ― annuncia Enrica. E le rilascia altri sculaccioni.
La bambola non s’impressiona e le tira i capelli. ― Ahi! Ma perché mi picchi?
― Legittima difesa, ― dice la bambola. ― Sei tu che mi hai insegnato a picchiare, picchiandomi per la prima. Io non avrei saputo come fare.
― Bè, ― dice Enrica per sviare il discorso, ― giocheremo alla scuola. Io ero la maestra e tu la scolara. Questo era il quaderno. Tu sbagliavi tutto il dettato e io ti mettevo quattro.
― Cosa c’entra il numero quattro?
― C’entra, sì. È così che fa la maestra a scuola. A chi fa bene, dieci; a chi fa male, quattro.
― Perché?
― Perché così impara.
― Mi fai ridere.
― Io?!?
― Naturale, ― dice la bambola. ― Rifletti. Ci sai andare in bicicletta?
― Certo!
― E quando stavi imparando e cascavi, ti davano un quattro, oppure ti mettevano un cerotto?
Enrica tace, perplessa. La bambola incalza: ― Pensaci un momento, su. Quando imparavi a camminare e facevi un capitombolo, forse la mamma ti scriveva quattro sul sedere?
― No.
― Ma a camminare hai imparato lo stesso. E hai imparato a parlare, a cantare, a mangiare da sola, ad allacciarti i bottoni e le scarpe, a lavarti i denti e le orecchie, ad aprire e chiudere le porte, a usare il telefono, il giradischi e la televisione, a salire e scendere le scale, a lanciare la palla contro il muro e riprenderla, a distinguere uno zio da un cugino, un cane da un gatto, un frigorifero da un portacenere, un fucile da un cacciavite, il parmigiano dal gorgonzola, la verità dalle bugie, l’acqua dal fuoco. Senza voti, né belli né brutti. Giusto?
Enrica lascia cadere il punto interrogativo e propone: ― Allora ti lavo la testa.
― Sei matta? Il giorno di Natale...
― Ma io mi ci diverto, a lavarti la testa.
― Tu ti ci diverti, ma a me mi va il sapone negli occhi.
― Insomma, sei la mia bambola e con te posso fare quello che voglio io. Capito?
Questo capito fa parte del vocabolario del signor Fulvio. Anche la signora Lisa, qualche volta, conclude i suoi discorsi con un bel capito? Adesso tocca a lei, a Enrica, far valere la propria autorità padronale. Ma la bambola, a quanto pare, se ne infischia. Essa si arrampica in cima all’albero di Natale, facendo scoppiare svariate lampadine di diversi colori. Quando è in cima fa pipì, bagnando altre lampadine a forma di Biancaneve e dei Sette Nani.
Enrica, per non litigare, va alla finestra. In cortile i bambini giocano al pallone. Hanno monopattini, tricicli, archi e frecce. Anche i birilli. ― Perché non vai in cortile a giocare con gli altri bambini? ― domanda la bambola, mettendosi le dita nel naso per sottolineare la propria indipendenza.
― Sono tutti maschi, ― dice Enrica, mortificata. ― Fanno giochi da maschi. Le bambine debbono giocare con le bambole. Debbono imparare a fare le brave mammine e le brave padrone di casa, che sanno mettere a posto i piattini e le chiccherine, fare il bucato e lucidare le scarpe della famiglia. La mia mamma lucida sempre le scarpe del mio papà. Gliele lucida di sopra e di sotto.
― Poveretto!
― Chi?
― Il tuo papà. Si vede che è senza braccia e senza mani...
Enrica decide che è il momento di dare due schiaffi alla bambola. Per raggiungerla, però, deve arrampicarsi sull’albero di Natale. L’albero, da quel vero incapace che è, ne approfitta per crollare a terra. Vanno in frantumi le lampadine e gli angeli di vetro: un cataclisma. La bambola è finita sotto una sedia e pensa bene di mettersi a sghignazzare. Però è la prima a tirarsi su e corre a vedere se Enrica si è fatta male.
― Ti sei fatta male?
― Non dovrei neanche risponderti, ― dice Enrica. ― È tutta colpa tua. Sei una bambola maleducata. Non ti voglio più.
― Finalmente! ― dice la bambola. ― Spero che adesso giocherai con le automobiline.
― Neanche per sogno, ― annuncia Enrica.
― Prenderò la mia vecchia bambola di pezza e giocherò con quella.
― Davvero!? ― dice la bambola nuova. Si guarda intorno, vede la bambola di pezza, l’acchiappa e la butta dalla finestra senza nemmeno aprire i vetri.
― Giocherò con il mio orsacchiotto di pelo, ― insiste Enrica.
La bambola nuova cerca l’orsacchiotto di pelo, lo trova, lo butta nel bidone delle immondizie. Enrica scoppia in pianto. I genitori odono e accorrono, giusto in tempo per vedere la bambola nuova che si è impadronita delle forbici e sta tagliuzzando tutti i vestiti del guardaroba delle bambole.