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Nel vano della porta Totem lo guardava.

Ma era ancor più sciocco voler analizzare un capriccio senza importanza, come se potesse avere un significato qualsiasi, in un modo o nell’altro.

Per dimostrare a se stesso che non significava nulla, avrebbe aperto ancora un cassetto.

Ma questo fece resistenza e fu costretto a forzarlo.

Una grande scatola di cartone, in fondo al cassetto, attirò la sua attenzione. Sollevò un angolo del coperchio e prese una delle boccettine di profumo, dal tappo di vetro, di cui la scatola era colma. Che razza di cosmetico poteva essere quello? Troppo scuro per trattarsi di una cipria. Somigliava piuttosto a un campione di terra per raccolte geologiche. Un ingrediente per una maschera facciale? Impossibile, Tansy aveva un orticello con tutte le erbe aromatiche di cucina. Si trattava forse di una di quelle?

I granuli secchi, scuri scorrevano facilmente come sabbia in una clessidra, mentre Norman faceva roteare la boccetta di vetro. Vi era pure un’etichetta indubbiamente scritta da Tansy, era la sua calligrafia. Portava un nome: Julia Frock, Roseland. Perché mai la parola Roseland suonava così sgradevole? Alzò il coperchio di cartone e prese un’altra boccetta, identica alla prima, solo che il contenuto era un po’ più rosso e sull’etichetta si leggeva: Phillip Lassiter, Hill. Un terzo specimen dello stesso colore del primo portava: J.P. Thorndyke, Roseland. Raccolse in fretta un gruppo di boccette: Emelyn Scatterday, Roseland, Mortimer Pope, Hill. Reverendo Bufort Ames, Roseland. Ed erano rispettivamente marrone, rossa e marrone.

Il silenzio all’interno della casa divenne inquietante. Perfino la luce del sole, nella stanza da letto, pareva crepitare, mentre il pensiero di Norman si concentrava su questo rebus.

Roseland e Hill. Roseland e Hill. Ah, sì!… ecco: «Siamo andati a Roseland e Hill…» era come una ninna nanna infantile, ma che, di colpo, si rivelava maligna e rendeva le boccette di vetro ripugnanti al tocco, «…e da lì non siamo più tornati».

Di colpo ottenne la risposta.

I due cimiteri locali.

Era terra di cimitero.

Perfettamente. Erano campioni di terra. Di terra di cimitero prelevata da determinate tombe. Un ingrediente principe nella magia nera dei neri.

Con un tonfo soffice Totem piombò sul tavolo e cominciò ad annusare le boccette. Fece un balzo indietro quando Norman ficcò la mano nel cassetto. Sentiva che dietro la grande scatola di cartone vi erano scatole più piccole. Aprì il cassetto con uno strappo sino in fondo ed esso cadde. Una delle scatole conteneva chiodi arrugginiti, storti, consumati, chiodi di ferro di cavallo. Nell’altra vi erano bustine per biglietti da visita, riempite di pezzettini di capelli. Ogni busta era catalogata, come le boccette, ma questa volta i nomi gli erano noti: Hervey Sawtelle… Gracine Pollard… Hulda Gunnison… In una busta che portava il nome di Evelyn Sawtelle vi erano pezzetti di unghie laccate.

Nel terzo cassetto non c’era nulla, ma nel quarto si trovavano tante cose disparate: pacchetti di piccole foglie disseccate e materia vegetale in polvere. Era questa, dunque, la roba che Tansy piantava insieme alle erbe aromatiche di cucina, nel suo orticello? Verbena, vimogna, spezie tostate e macinate, dicevano le etichette. Pezzi di magnetite con attaccati frammenti di ferro. Penne d’oca che a scuoterle lasciavano sfuggire perline di mercurio. Una scatola piena di monetine d’argento e di limatura pure d’argento, vecchissimo talismano protettivo. Questo spiegava il mucchietto di soldi davanti alla sua fotografia.

Eppure Tansy era una persona così sana, così apertamente sprezzante di chiromanzia, numerologia, astrologia e delle altre minori superstizioni. Era un tipo schietto di americana della Nuova Inghilterra, pragmatica e culturalmente edotta da quando collaborava col marito, del sottofondo psicologico esistente nelle superstizioni e nella magia primitiva. Edotta… ma sì, certo!

Si trovò a sfogliare una copia consunta del suo saggio sul Parallelismo fra superstizione e nevrosi…. non era per caso la copia smarrita in casa otto anni fa? Accanto a una formula magica di scaramanzia c’era una nota marginale scritta da Tansy: “Non funziona. Sostituire la limatura di rame con limature di ottone. Provare in novilunio, anziché in plenilunio”.

«Norman!!!»

Tansy era lì, nel vano della porta.

2

In alcune, rare occasioni, le persone che meglio conosciamo sono proprio quelle che ci appaiono totalmente fuori della realtà. Per un attimo i visi a noi più noti ci sembrano una combinazione arbitraria di superfici colorate, prive perfino di quell’ombra di personalità che attribuiamo anche a un passante appena intravisto.

Norman provò la sensazione di avere davanti a sé non più sua moglie, ma un ritratto di sua moglie. Era come se un Renoir o un Toulouse Lautrec dotati di magiche virtù avessero dipinto Tansy usando l’aria come tela. Le guance piatte erano rese con i toni più pallidi della carnagione e leggermente ombrate di verde; confluivano poi in un mento piccolo e insolente. Un tratto disinvolto aveva segnato su quel viso le labbra rosse dall’espressione meditativa. Gli occhi grigi (o verdi?) avevano un’espressione un po’ ironica e le sopracciglia erano soltanto un tratto scuro, neppure ondulato, diviso da un solco verticale in mezzo alla fronte. I capelli neri erano una pennellata infantile e sinistra che macchiava le zone bianche del collo scendendo fin sul vestito rosso vino. Colto alla perfezione, il gomito stringeva un pacco di sartoria, mentre due brutte manine si alzavano per togliere un cappelline anch’esso rosso vino, ornato di un piccolo ma vistoso gioiello di vetro argentato.

Se l’avesse toccata con la mano, pensò Norman, il dipinto sarebbe caduto a strisce dall’aria vuota come dal ritratto fantasma di un Dorian Gray femminile.

Rimase lì, stupito, a guardarla, col libro in mano e senza riuscire a dir nulla. Perlomeno non gli sembrò di aver parlato; ma, se l’avesse fatto, sapeva che la sua voce sarebbe risuonata come quella di un estraneo, come la voce di un qualche stupido professore.

Senza dir nulla, senza neanche mutare espressione, Tansy voltò i tacchi e uscì rapidamente dalla stanza da letto. Il pacco della sartoria cadde a terra. Ci volle un momento prima che Norman riuscisse a muoversi.

La raggiunse nel soggiorno, mentre si avviava verso l’ingresso. Quando Norman si rese conto che Tansy non si sarebbe né voltata né fermata, le passò un braccio intorno alla vita. E fu allora che lei reagì. Si dibatté con violenza, voltando il viso dall’altra parte, le braccia strette lungo il corpo come se fosse legata.

Con le labbra serrate e un tono di voce bassissimo, parve sputare le parole: «Non mi toccare!»

Norman si raddrizzò e prese solidamente appoggio sui piedi. C’era qualcosa di orribile nel modo in cui si divincolava, lanciandosi di qua e di là, tentando di liberarsi dalla stretta. Norman per un attimo immaginò una donna chiusa nella camicia di forza.

Continuava a ripetere con lo stesso tono: «Non mi toccare!» e lui implorava: «Ma Tansy…»

Improvvisamente cessò di opporre resistenza. Norman abbandonò la stretta e fece un passo indietro.

Lei però non si rilassava, rimaneva in piedi, rigida, col viso voltato da un lato e, per quel poco che Norman riusciva a vedere, con gli occhi nervosamente chiusi, le labbra strette. Un’analoga tensione invase anche lui e gli diede una stretta al cuore.

«Cara» le disse «mi vergogno di ciò che ho fatto. Non importa ciò che mi ha fatto scoprire. È stato un gesto meschino, vile, inutile, ma…»

«Non è per questo.»

Egli esitò.

«Vuoi dire che ti comporti così perché… insomma, perché ti vergogni di ciò che ho scoperto?»

Nessuna risposta.